Il terrorismo si fronteggia efficacemente con uno strumento quasi impalpabile eppure dal doppio manico: l’intelligenza, l’intelligence
Intelligenza significa etimologicamente “leggere tra le righe”, entrare con la mente dentro ai segni, alla sintassi dei segni e scovarne ogni significativo legame, oltre l’apparenza sintetica. Analizzare le grafie, i legami, i vincoli, le relazioni. Una sorta di colla che lega piani non perfettamente lisci ma porosi, che hanno canali di adesione.
Infiltrarsi tra le righe per un’azione discreta. La discretizzazione, infatti, riduce l’energia esponenziale del potenziale offensivo.
Infiltrare le menti dentro la mente offensiva.
C’è strategia evoluta e c’è manovalanza, nel calderone stragista del terrore: è assurdo contrapporre i due elementi e vederli in antitesi.
Non è percuotendo, anche con potenza evidente ed inaudita, che si annichilisce una “creatura” come il terrorismo, creatura in quanto ente parametrato e conseguenziale di altro e in quanto figlia di molteplici padri, ma si annichilisce (nella sua forma di ora e qua) insinuandosi e in maniera pervasiva per modificarne l’epigenesi del suo dna, il suo dna del momento.
Il terrorismo è come un’impresa che ha un molteplice divenire di mission “di ora e qua” ma una vision sempiterna
Partiamo dalla vision, per mutuare una terminologia economico-aziendale da vocabolario assai d’uso comune oggi ma che ci permette anche di dare un taglio al tutto che più o meno implicitamente presupponga che il fenomeno del terrorismo non sia una creazione estemporanea di pazzi ma abbia una sua drammatica ragione d’essere storica, culturale e quindi una relativa organizzazione più o meno raffinata.
Il terrorismo, in quanto elemento sociale che riassume un elemento antropologico prima di tutto individuale e poi collettivo, è ineliminabile
Ha un suo divenire di DNA, una sua missione che nasce dal suo corpo genetico in divenire.
Il terrorismo ha una sua genetica ma anche epigenetica.
Non bastano, servono ma non bastano politiche di integrazione o economiche, come non basta decapitare manu militari una capitale geografica, una testa di un’idra.
Non è il solo disagio sociale che genera una creatura come il terrorismo, nei suoi aspetti fenomenologici, ma il disagio crea le unghie del suo assalto, quelle che possono anche spezzarsi pur di ferire l’obiettivo o, meglio, radicarsi ancor più in profondità.
E le strategie evolute del terrorismo, il tecnicismo, sono materia, sono materiale genetico che proviene dallo stesso organismo che il terrorismo vuole distruggere.
Nuoce, paradossalmente, di più la mera inclusività di conoscenza che il disagio sociale ed economico, cioè è non solo inutile ma pericolosa la conoscenza libera da un vincolo di destinazione: è pandemia del male sul lato di chi la vuole cedere come un prodotto e chi la deve ricevere come un prodotto: il cash & carry del sapere, da solo e senza una vera inclusività sociale, è un mero quanto drammatico acceleratore di problematiche (utilizzo il termine inclusività per indicare l’attività, distinguendo da inclusione che ne è l’obiettivo).
Quel che cura può uccidere: la lama è bisturi o coltello da macello, l’esplosivo è tunnel per la circolazione o implosione di grattacieli.
Il terrorismo (nella sua forma di ora e qua) è pervasivo e nella pervasività c’è la sua metodologia di alimentazione e quindi il suo punto sensibile per essere annichilito (nella sua forma di ora e qua).
I terroristi (nella loro forma di ora e qua) imparano metodi e approcci dall’organismo che poi minacciano e colpiscono perché condividono una conoscenza ma non la destinazione che il maestro-precettore-produttore reputava come “giusta”.
Il terrorismo non ha abbastanza risorse per -ma soprattutto interesse a -sviluppare tecnologia: difficilmente vi riesce, ma gli è sufficiente sviluppare un know-how
Nella manovalanza, gli strateghi o i capi branco usano i mantra alchemici che riducono persone umane ad unghie nell’aspettativa di un premio divino, danno prospettive salvifiche a chi è (o, meglio, si sente) perso perché nessuna società, anche quella di quasi tutte le religioni passate e future (cioè ulteriori alla forma di ora e qua), è senza una geografia di suoi paradisi e suoi inferni: dall’inferno si generano demoni e questi demoni antropologicamente sono angeli deviati.
C’è ben poco di innovativo nel terrorismo, c’è ben poca innovazione perché il terrorismo è sempre parametrato (nella sua forma di ora e qua).
Il terrorismo non genera, in senso di innovazione, non apporta sviluppo tecnologico e sociologico ma, semplicemente, riusa, reinterpreta, millantando palingenesi che non esistono e sviluppa solo un know-how su un materiale esistente.
Un ipotetico manuale del buon terrorista avrebbe nulla di più innovativo di quanto possa avere un copia-incolla di una tesi universitaria già usata, a cui aggiungere formule di rito e invocazioni liturgiche.
Il terrorismo (nella sua forma di ora e qua) finisce non solo la sua missione ma la sua essenza (nella sua forma di ora e qua)proprio quando disintegra il suo obiettivo: in questo c’è spesso disallineamento strategico tra strategia e manovalanza del terrorismo, tra loro e nel loro stesso interno.
E’ un inferno che esiste solo finché c’è il paradiso, appunto, perché vive di riflesso, esiste solo in quanto parametrato.
Bombardare per distruggere la manovalanza è come sottoporre a bombardamento radioattivo un corpo pervaso dal male: i reliquati del bombardamento sfiancano sia il parassita sia il corpo ospitante.
Chi detona, chi spara, chi arruola sono manovalanza nella sceneggiatura ben più integrata e interfacciata nella e alla nostra normalità.
Il terrorismo come creatura ha più aderenze al nostro sistema, più inclusione di quanto si pensi, semplicemente perché terrorismo è (anche) un contenitore di paure che cambia etichetta nel tempo e nello spazio ma che permane.
Si può colpire solo quel momento, quel discreto del terrorismo che è il suo momento discreto nel divenire, l’etichetta e la sua colla, prendendo atto che è quello un lavoro di pervasività e adesione e che il resto del mondo che è minacciato dal terrore non ha superficie liscia ma porosa e nei suoi pori affondano i gangli della pervasività da contrastare.
Solo con intelligenza, con intelligence, veri e propri solventi, si annichilisce la mission del terrorismo dell’ora e qua.
Il modello della militarizzazione rende palese il bisturi su un malato non sedato; certo rassicura di avere un chirurgo davanti e, quindi, una tutela e presidio contro il male, ma all’aumentare dei chirurghi e bisturi non si spaventa il male “cieco” ma si stressa il paziente, lo si rende più insicuro ancora.
La militarizzazione di strade e piazze genera un senso di eccezionalità, che è l’essenza del successo mediatico del terrorismo, è la realizzazione della sua mission: indubbiamente, su un piano teorico, il tutto può creare ostacoli al terrorista (nella sua forma di ora e qua) ma non al terrorismo.
Il presidio militare è certo necessario ma non è sufficiente se implica militarizzazione delle aree da proteggere.
L’azione militare è certo anche necessaria ma non è sufficiente se implica il solo bombardare le aree di radicamento logistico del terrorismo: le bombe intelligenti, infatti, di intelligente hanno proprio ben poco, metonimia che trasla sullo strumento quella che invece è una necessità di lavoro a monte di individuazione ben precisa, di analisi e prognosi di coordinate geografiche ma prima ancora socio-ambientali.
Le bombe intelligenti esistono non tanto se e perché l’operatore da remoto o il pilota ha conoscenza dell’uso del veicolo di lancio e dello strumento balistico di attacco, semmai perché l’analista, infiltrato o meno, o l’occhio satellitare (anche lui con un analista) ha messo bene a fuoco non solo l’orizzonte ma anche l’oggetto e il suo contesto.
Invasioni e “missioni” aprono poi ai governi nazionali e le organizzazioni internazionali e sovranazionali le problematiche giuridiche complesse e insidiose a loro volta di riconoscimento politico e bellico dell’altro come nemico di guerra. Per quanto evocativa, l’immagine di Rogue States (Rogue Nations nella nomenclatura cinematografica) , cioè l’immagine di stati canaglia, è immagine che fortifica su un piano politico il luogo considerato epicentro del terrorismo (nella sua forma di ora e qua), creando una sineddoche pericolosa che a sua volta ha l’ambiguità di elevarsi a polizia del mondo a spese di tutti quelli che, anche non fiancheggiatori e sotto la pioggia di bombe intelligenti o proiettili “banali”, hanno modo di elevare l’epicentro a sorta di tangibile icona e baluardo dei loro diritti (nella forma di ora e qua) presunti lesi o lesi prima o durante o dopo la missione.
Non “proiettare”: non solo proiettili ma anche le proprie ragioni. Intelligenza e Intelligence come doppia lente
Perché una soluzione sia efficace, occorre banalmente che una soluzione per prima cosa ci sia, nel senso di avere una sua propria ontologia coerente, e per esserci ed esser tale occorre che abbia una sua attendibilità.
Proiettare i modelli comportamentali, arrivando al punto di pensare di “esportare” (ad esempio modelli come la democrazia) è sì ragionevole, non è certo illogico, ma è inefficiente se poi si ha obiettivi di risultati a breve o brevissimo periodo e se non si vuole, e per fortuna non si vuole, eradicare qualsiasi portatore di modelli diversi. Si ricade nel limite di portata della trasmissione di conoscenza senza inclusione, risultato da una mera inclusività di facciata di scritto sopra.
Banalmente, se si vuole vincere tutto e subito senza eliminare, di diritto ma soprattutto di fatto ossia fisicamente, i portatori di un modello diverso, si cade in una contraddizione di efficienza oltre che etica: vuol dire avere la presunzione prima di tutto analitica, epistemologica, di proiettare il nostro modello come naturalmente comprensibile e necessariamente vincente e da accettare.
Lo stesso vale, a maggior ragione, per coloro che sono terroristi (nella sua forma di ora e qua) come pure per coloro i quali terroristi non sono, non perché in disaccordo con il modello terroristico o coi suoi obiettivi, ma semplicemente perché non rilevano che ci sia un terrorismo, perché hanno diverso modello interpretativo, definiamolo anche etico o religioso, oppure perché non hanno quel minimo di bagaglio informativo per capire cosa, dove e perché ci siano terrorismo, terroristi e vittime.
Contraddizioni e limiti dell’approccio al contrasto del terrorismo nell’Unione Europea su intelligenza – intelligence
La presunzione del colto non è nel suo esaltarsi come colto, non è nel narcisismo di essere il migliore nel sapere, ma nella sua assenza sociopatico-politica di empatia: il “peccato” non consta nel contemplare sé, ma nel proiettare la propria idea di sé negli altri che, a proprio parere, a torto o ragione, colti non sono e pretendere che sia riconosciuto per quel che, a torto o ragione, egli si sente di essere o è.
E, ridotto il tema ai minimi termini, questa assenza sociopatico-politica di empatia non è poi il vuoto di dinamica relazionale che si contesta ai terroristi (nella loro forma di ora e qua)?
L’intelligenza e l’intelligence evidentemente non sono termini coincidenti ed equipollenti ed è su questa ambiguità semantica che, a mio avviso, si delineano gli spazi e modi del piano (certo ulteriormente composito) di contrasto al terrorismo (nella sua forma di ora e qua). L’intelligenza è lente e non proiezione individuale/social-culturale o solo coordinata d’analisi per proiettili o elementi balistici: l’intelligenza è strumento di acquisizione dinamica di dati e informazioni, quel saper leggere tra le righe che “arma” la forza dell’intelligence. L’intelligenza è lente perché opera, per quanto ci sia presunzione di disallineamento tra culture e sistemi, tra il proprio superiore e quello bersaglio (quindi considerato inferiore), in una situazione di paratassi tra osservatore e osservato, di acquisizione il più possibile “pulita” degli elementi anche nascosti tra le righe della complessità del terrorismo (nella sua forma di ora e qua).
L’intelligence acquisisce con l’intelligenza, quindi, quelli che sono i segni, le grafie, le sintassi, le dinamiche e i significati del terrorismo (nella sua forma di ora e qua) e dei terroristi (nella sua forma di ora e qua).
Sulle metodologie, le tecniche e i dettagli non mi esprimo e non bisogna appunto nemmeno esprimersi per non smascherare narcisisticamente la loro capacità di mimesi né millantare roboanti conoscenze tuttologhe, ma a livello di contesto la prima soluzione che si può dichiarare per rendere palese un modo di potenziare e di rendere efficiente questo duo intelligenza ed intelligence è facile da individuare in concreto. Il banale, infatti, del non-fatto-e-ancora-da-fare che rende deboli nonostante ci siano eccellenti risorse materiali e umane e che di certo non è un segreto ma un peccato originale gravissimo, esiziale, anche su un piano politico e che scredita il senso stesso di Unione Europea è racchiuso in questo:
nell’Unione Europea sono pilastri fondanti le libere circolazioni di merci, beni, servizi, persone… il senso di unione è consolidato nella necessità/diritto di libera circolazione… eppure manca la libera circolazione di intelligenza e intelligence, a vantaggio del know-how terroristico e della propaganda zoppa di unione con tutti gli uniti carichi di propri segreti gelosamente custoditi.
Ma se è ovvio che non ci siano parate di intelligence, perché non esibire le vittorie, ossia tutti i casi di terrorismo (nella sua forma di ora e qua) bloccati e impediti, è la normalità pressoché necessaria ed inevitabile dell’attività di intelligence, è altrettanto ovvio che questa assenza necessaria di ostentazione delle vittorie “sotto copertura” possa risultare discretamente sterile su un piano meramente politico-elettorale: non produce applausi e quindi non produce consensi.
L’uomo col megafono e l’elmetto da vigile del fuoco che arringa alla nazione sulle macerie di un’area che ha visto implodere due torri per lo schianto dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, invece, è l’icona dell’uomo capo delle forze militari che manda (giustamente o meno) gli eserciti e che con la sua liturgia ricompatta politicamente (davvero o meno) una coscienza collettiva che si sente ferita grazie ai simboli che a loro volta sono simboli e bandiere. Il tutto avviene secondo una sorta di processione d’iconografia classica, oltre che però con ben più tangibile sacrificio di sangue e carne di vite umane.
Quel tipo di messaggio dà riscontro politico e parte comunque da un’aggressione che a sua volta è una sconfitta di un sistema (di intelligence) che doveva prevenirla.
L’intelligence, se e quando vince e vince empiricamente se e quando non-succede-qualcosa, è lo strumento di minor propaganda possibile ma di maggior valenza strategica, al punto che si è disposti ad azioni militari congiunte, alleanze e quanto si vuole ma si è assai riluttanti a condividere, come tra pochissimo vedremo, contenuti e metodi dell’intelligence.
Di tutte e delle tantissime vittorie dell’intelligence l’alfiere e bardo che ne racconta è il… silenzio.
Il punto è nevralgico non per idolatrare un’attività che nell’immaginario collettivo fa riempire le sale cinematografiche e fa dell’azione antropologicamente super-virile il suo elemento qualificante: l’uno contro i tantissimi, che guida come un pilota, spara come un cecchino, crea dal nulla, seduce e ammalia, ha gestione dei suoi deliri di onnipotenza, è un homo technologicus 2.0 poi sicuramente 3.0 o 4.0…
Il punto è nevralgico per stabilire come l’intelligence sia invece (o debba essere) un’attività diffusa in ambito culturale e sociale e quindi condivisa, pervasiva, pur e doverosamente solo nei limiti della legalità (nella sua forma di ora e qua), ma non certo individuale in quanto tale o a vocazione unica per un uomo quasi semidivino. Non una società dell’intelligence fine a se stessa ma una società di intelligenza, o, meglio, una intelligence sociale, senza pistoleri o 007 di loro iniziativa, ma con una condivisone di centri (legali, nella loro forma di ora e qua) di acquisizione di informazioni (lecite e secondo metodi legali, nella loro forme di ora e qua).
C’è diffusione efficiente e legale, almeno su un piano materiale, quando c’è condivisione.
Si può intuire bene come questa sia la madre di tutte le contraddizioni di una unione qualsiasi e ancor peggio per l’Unione Europea, contraddizioni non solo in termini ma anche di ideale politico: questo è il peccato da emendare che rende debole un sistema che di fatto è solo un frammentato e stocastico reticolato di unità informative non così ben discrete, un sistema immunitario abbastanza di facciata che o non comunica al suo interno o comunica con una molteplicità di linguaggi non condivisi, protocolli non condivisi, informative non condivise e strategie “ben” mascherate.
Esistono anche intelligenza e intelligence nella loro forma di ora e qua. E il qua ora è la nostra Unione Europea con intelligence poco intelligente e, quindi, poco efficiente perché non condivisa.