Contaminazioni in musica: Non potho reposare – Tazenda e…

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Ci sono canzoni che finiscono per rappresentare un popolo, almeno agli occhi di chi non vi appartiene. Possono arrivare da lontano o essere recenti, ma colpiscono qualcosa dell’immaginario collettivo che le rende immortali. Per me, e per molti altri, Non potho reposare porta dentro sé tutto lo spirito sardo.
La conobbi in un periodo di prime infatuazioni e confusione e mi colpì per lo struggimento, per l’urgenza dolorosa che vi era racchiusa.  Il fatto stesso che parte del senso mi fosse precluso mi sembrava metafora dell’amore come lo intendevo allora, qualcosa di oscuro, che si percepisce ma non si spiega, che si conosce ma mai del tutto. Ascoltai e riascoltai la versione dei Tazenda. Poi, come succede per tante cose, la dimenticai.
Recentemente mi sono imbattuta in una mia vecchia playlist, e fra i vari pezzi abbandonati ho ritrovato questo. Ho voluto saperne di più. Ho scoperto così che la canzone ha radici più antiche di quanto pensassi. La versione originale è ricavata da una poesia, scritta da Salvatore Sini nel 1915. Avvocato e scrittore sardo, nacque a Sarule, nella Barbagia di Ollulai, dove si dedicò alla pastorizia prima di diventare uno dei più rispettati civilisti del tempo. A Diosa, il testo da cui venne tratta la canzone, è la sua poesia più conosciuta, quella che l’ha reso noto anche fuori dall’isola. Il testo originale è questo:

Non potho reposare, amore, coro,
pessende a tie so(e) donzi mommentu;
no istes in tristura, prenda ‘e oro,
nene in dispiaghere o pessammentu,
t’assicuro chi a tie solu bramo,
ca t’amo vorte et t’amo, t’amo, t’amo.

Amore meu, prenda d’istimmare,
s’affettu meu a tie solu est dau.
S’hare giuttu sas alas a bolare
milli vortas a s’ora ippo volau,
pro venner nessi pro ti saludare
s’attera cosa, nono, a t’abbisare.

Si m’essere(t) possibbile de anghelu
s’ispiritu invisibile picavo
sas formas e(t) furavo dae su chelu
su sole, sos isteddos e formavo
unu mundu bellissimu pro tene
pro poder dispensare cada bene.

Amore meu, rosa profumada,
amore meu, gravellu oletzante,
amore, coro, immagine adorada,
amore coro, so ispasimante,
amore, ses su sole relughente,
ch’ispuntat su manzanu in oriente.

Ses su sole ch’illuminat a mie,
chi m’esaltat su coro ei sa mente;
lizu vroridu, candidu che nie,
semper in coro meu ses presente.
Amore meu, amore meu, amore,
vive senz’amargura nen dolore.

Si sa luche d’isteddos e de sole,
si su bene chi v’est in s’universu
hare pothiu piccare in-d’una mole
commente palombaru m’ippo immersu
in fundu de su mare e regalare
a tie vida, sole, terra e mare.

Unu ritrattu s’essere pintore
un’istatua ‘e marmu ti faghia
s’essere istadu eccellente iscultore
ma cun dolore naro “no nd’ischia”.
Ma non balet a nudda marmu e tela
in confrontu a s’amore, d’oro vela.

Ti cherio abbratzare ego et vasare
pro ti versare s’anima in su coro,
ma dae lontanu ti deppo adorare.
Pessande chi m’istimmas mi ristoro
chi de sa vida nostra tela e trammas
han sa matessi sorte pritte m’amas.

Sa bellesa ‘e tramontos, de manzanu
s’alba, s’aurora, su sole lughente,
sos profumos, sos cantos de veranu
sos zefiros, sa bretza relughente
de su mare, s’azurru de su chelu,
sas menzus cosa do, a tie.

In italiano (nella traduzione di G P El Cid):

Non posso riposare, amore, cuore,
pensando a te sto in ogni momento.
Non essere triste, gioiello d’oro,
non dispiacerti e non stare in pensiero per me.
T’ assicuro che bramo te soltanto
perché ti amo forte, e ti amo, ti amo, ti amo.

Amore mio, gioiello da amare,
il mio affetto è riservato a te soltanto.
Se avessi avuto le ali per volare,
sarei già volato da te mille volte:
per venire almeno a salutarti
o anche solo per vederti appena.

Se mi fosse possibile dell’angelo
lo spirito invisibile penderei,
e le forme, ruberei dal cielo sole
e stelle per formare
un mondo bellissimo per te
così da poter dispensare ogni bene.

Amore mio, rosa profumata;
amore mio, garofano odoroso;
amore, cuore, immagine adorata;
amore del mio cuore, io spasimo per te;
amore, sei il sole rilucente
che spunta la mattina ad oriente.

Sei il sole che mi illumina
e mi esalta il cuore e la mente;
giglio fiorito, candido come neve,
sempre nel mio cuore sei presente.
Amore mio, amore mio, amore
vivi senza amarezza e dolore.

Se avessi potuto prendere tutto in una volta
la luce delle stelle e del sole
e tutto il bene che c’è nell’universo,
mi sarei immerso come un palombaro
in fondo al mare per farti dono
di vita, sole, terra e mare.

Se fossi pittore ti farei un ritratto,
se fossi scultore eccelso
ti dedicherei una statua di marmo,
Invece dico con dolore: “non so fare queste cose”.
Ma il marmo e la tela nulla contano
in confronto all’amore, che è vela dorata.

Vorrei abbracciarti e baciarti
per unire la mia anima al tuo cuore.
Ma devo adorarti da lontano.
Mi conforta il pensiero che tieni a me,
che tela e trame della nostra vita
hanno lo stesso destino in virtù del tuo amore.

L’incanto dei tramonti, la prima alba
l’aurora, il sole splendente,
i profumi, i canti della primavera,
gli zefiri, la brezza rilucente
del mare, l’azzurro del cielo,
le migliori cose io do a te.

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L’uomo costretto a stare lontano dall’amata, le scrive tutto ciò che sente. Il tema non è nuovo, eppure le ripetizioni, il susseguirsi di nomignoli da amante e la costante raccomandazione di stare serena rendono reale e intenso il dolore della mancanza. E’ facile immedesimarsi in Diosu, leggendolo. C’è una quotidianità struggente che fa da contrappunto alla poesia, e avvicina lettore e scrittore.
Parte della fortuna di questo testo si deve al compositore Giuseppe Rachel, amico di Sini e direttore del Corpo Musicale Filarmonico di Nuoro, che nel 1920 lo musicò e lo rese parte del repertorio. La prima versione che valicò i confini di Nuoro, tuttavia, fu incisa dal tenore mogorese Maurizio Carta nel 1936. Nel 1966, finalmente, il Coro Barbagia di Nuoro e il Coro di Nuoro la inseriscono in due raccolte di musica sarda tipica, rispettivamente “Sardegna, canta e prega” e “La Sardegna nel canto e nella danza”, rendendole la giusta notorietà non solo in tutta l’isola, ma anche nel resto d’Italia.
La canzone è più breve, per ovvi motivi, ma mantiene forte il senso di mancanza dell’originale:

No potho reposare amore ‘e coro,

Pensende a tie sò onzi momentu.

No istes in tristura prenda ‘e oro,

Ne in dispraghere o pessamentu.

T’asseguro chi a tie solu bramo,

Ca t’amo forte t’amo, t’amo e t’amo.

Si m’esseret possibile d’anghelu

S’ispiritu invisibile piccabo

Sas formas ka furabo dae chelu

Su sole e sos isteddos e formabo

Unu mundu bellissimu pro tene,

Pro poder dispensare cada bene.

Unu mundu bellissimu pro tene,

Pro poder dispensare cada bene.

No potho reposare amore ‘e coro,

Pensende a tie sò onzi momentu.

T’asseguro chi a tie solu bramo,

Ca t’amo forte t’amo, t’amo e t’amo.

T’asseguro chi a tie solu bramo,

Ca t’amo forte t’amo, t’amo e t’amo.

Non posso riposare amore del mio cuore,

Pensando a te ogni momento.

Non essere triste, gioiello mio d’ oro,

né addolorata o preoccupata.

Ti assicuro che desidero solo te,

perché ti amo forte, ti amo, ti amo e ti amo.

Se mi fosse possibile dell’angelo

prenderei lo spirito invisibile,

il suo aspetto, e ruberei dal cielo

il sole e le stelle, e creerei

un mondo bellissimo per te

per poterti regalare ogni bene.

Un mondo bellissimo per te

Per poterti regalare ogni bene

Non posso riposare amore del mio cuore,

Pensando a te ogni momento

Ti assicuro che desidero solo te,

Perché ti amo forte, ti amo, ti amo e ti amo.

Ti assicuro che bramo te soltanto,

Perché ti amo forte, ti amo, ti amo e ti amo.

Pur tagliando molte parti, il senso è perfettamente conservato e per il ritornello viene scelto il pezzo più indicativo, “ti assicuro che bramo te soltanto, perché ti amo forte, ti amo, ti amo, ti amo”.
Non potho reposare diventa pian piano repertorio di tutti i cori sardi, partendo da quelli nuoresi per poi allargarsi, e viene presto presa a prestito anche da interpreti di musica leggera che la rimaneggiano. Particolarmente toccante, a mio parere, la versione del 1978 di Maria Carta. Cantautrice, attrice e lei stessa poetessa, la Carta è stata un poliedrico mezzo di diffusione della cultura sarda con la sua voce calda e le alte doti interpretative.

« Il suo bel viso, la fierezza e insieme la grazia del suo portamento, più che un simbolo, sono una personificazione di quella Sardegna intangibile e indomita che ho sempre amato. Quando la sua voce calda e potente si alza e riempie lo spazio, si aprono infiniti orizzonti che scendono nella storia. Dopo aver conosciuto Maria Carta, ancora una volta affermo che i soli grandi uomini della Sardegna sono state donne »

(Giuseppe Dessì, presentazione dell’Album Delirio 1974)

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In questa interpretazione viene cambiata anche la strofa finale:

Ojos tristos cun delirios e ammentos

che umbras mi lassades su manzanu

preguntende a dogni coro amadu

a immagine chi si formant in beru

si ‘idu an’in su mundu tantu amore

ca amare tantu est sì tantu dolore.

Si ‘idu an’in su mundu tantu amore

ca amare tantu est sì tantu dolore

Occhi tristi, con ricordi deliziosi

come ombre che scompaiono al mattino

come immagini che diventano realtà,

chiederei ad ogni cuore innamorato

se hanno visto al mondo tanto amore,

e perchè tanto amare provoca tanto dolore.

Ma veniamo alla versione che per prima ho conosciuto, e a cui quindi sono più legata, quella dei Tazenda. Questo gruppo formatosi nel 1988 diviene famoso grazie alla partecipazione a programmi musicali televisivi, fra cui il Festival di San Remo. In particolare partecipano all’edizione del 1991 con Pierangelo Bertoli e una versione riadattata con parti in italiano della loro canzone Disamparados, divenuta nota come Spunta la luna dal monte, e all’edizione dell’anno successivo con una canzone scritta in collaborazione con Fabrizio De Andrè, Pitzinnos in sa gherra. Hanno collaborato con grandi artisti italiani, come Paola Turci, Gianni Morandi e Francesco Renga, ma anche con gruppi esteri, come i Simple Minds. Sono stati quindi per molto tempo un grande strumento di diffusione delle sonorità tradizionali sarde e del dialetto, mischiate a ritmi moderni in uno stile definito etno-pop-rock.
Dal 1997 il cantante, Andrea Parodi, comincia una carriera solista che pur partendo in sordina lo porta poi a collaborazioni con artisti del calibro di Noa e Al di Meola. Purtroppo però nel 2004 scopre di essere malato di tumore. Prima di spegnersi nel 2006, riunisce tutti i vecchi e nuovi amici in un concerto a Cagliari chiamato Undici canzoni/ creazioni di forza e dolore, che è un testamento di struggente bravura e umanità. Qui canta una versione, io credo, definitiva di Non potho reposare: smagrito e affaticato dalla malattia, riempie il palco e la notte. Si rivolge alla moglie durante l’esecuzione, che lo guarda da dietro le quinte, e che alla fine chiama accanto a sé. “La mia vita”, dice, e nel salutare il pubblico si augura di rivedere tutti, “magari con un prossimo figlio”. Dolore, forza, speranza e amore. Questa è la versione che vorrei lasciarvi ascoltare, ora.

Hipazia Pratt

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