Grande Torino 1948-1949

Grande Torino. 4 maggio 1949 e la tragedia di Superga

Sono le 17.00 del 4 maggio 1949 quando il Fiat G. 212 , l’aereo con a bordo una delle squadre più forti della storia del calcio, il Grande Torino, si schianta contro un terrapieno alla base della Basilica di Superga. Quella del Grande Torino è una storia epica, eroica, tragica, tremenda su cui tutta l’Italia, di qualsiasi fede calcistica, ha pianto in quel momento. Non sopravvisse nessuno, tra calciatori, tecnici e dirigenti.
Vogliamo ricordare quel momento con le parole delle cronache di quel tempo, con video e altro che hanno, da lì in poi, legittimato la sorte di quel gruppo di amici, prima che di calciatori, nel novero dei grandi protagonisti della storia socio culturale d’Italia.

Grande Torino, l’articolo su La Nuova Stampa (La Stampa) di giovedì 5 maggio 1949

[da La Nuova Stampa (La Stampa) di giovedì 5 maggio 1949  http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,2/articleid,0003_01_1949_0107_0002_24716369/]

UN GRAVE LUTTO HA COLPITO LA NAZIONE LO SPORT IL GIORNALISMO

L’aereo del “Torino,, reduce da Lisbona urta e precipita sulla collina di Superga

Trentun vittime: diciotto calciatori, dirigenti e tecnici del sodalizio, il pilota e trd membri dell’equipaggio e i giornalisti: Cavallero de “La Stampa” Casàlbore di “Tuttosport” e Tosatti della “Gazzetta dei Popolo”

Sulla soglia di casa

Erano come soldati che tornano all’accampamento, i giovanotti del Torino che erano stati a battersi sul campo di Lisbona; e si erano battuti con impegno sul terreno sconosciuto, alcuni di loro superando il malessere suscitato dal clima diverso e dalla rapidità del trasferimento ; e avevano perduto con onore, come soldati che hanno fatto il loro dovere, anche se la fortuna non li ha premiati. Avevano tenuto alto il nome della Patria, fatto gridare il nome della Patria alla folla forestiera; avevano mostrato a gente che per anni ha conosciuto di noi solo le cose più tristi, che per anni ci ha immaginati avviliti, prostrati, umiliati, un fresco sorriso di giovani, un alacre impegno di far bene. Si erano presentati come eletta ed esempio della nuova generazione, che riprende con coraggio la sua vita dal fondo ove, non per sua colpa, si è ritrovata dopo la guerra. Perché con quest’animo noi vediamo partire le nostre squadre ginnastiche, sportive, atletiche, ogni volta che vanno all’estero; chiediamo ad essi qualcosa di più e di diverso che una emozione, di tifosi o un’esaltazione di spettatori. Con che gratitudine li vedemmo uscire per la prima volta dai confini, questi giovani, dopo la buia pausa della guerra; come benedicemmo quelle loro prime affermazioni, quelle loro prime vittorie, ciclisti, atleti, calciatori; raccoglievano intorno al loro gioco pacifico i primi consensi degli stranieri; si facevano ammirare per noi, amare per noi. E ad essi abbiamo continuato ad affidare, come a una bandiera, le sorti nuove, la riconquista delle simpatie smarrite; li abbiamo mandati fuori perché dicano alla gente straniera che siamo diversi da come ci hanno creduto; queste squadre elastiche, agili, brave, sono il simbolo della lotta di tutta la Nazione per rimettere in sesto la Patria, per farla risalire dal cupo, riconquistare amicizie dove ancora prevalgono sospetti o gelosie o rancori. Li mandiamo fuori pacifici campioni perché siano gli araldi di una fraternità sportiva, i primi a buttar giù le frontiere di odi o di malintesi; e siano magari gli arditi, i pionieri di una più vasta solidarietà umana da cui ci venga comprensione e giustizia. E come soldati caduti li piangiamo questi giovani fulminati sulla porta di casa; né la parola ci pare troppo retorica, sappiamo di quanta disciplina, di quanti sacrifici, di quante rinunce alle facili gioie della giovinezza era fatto il loro compito che pareva ai nostri occhi di spettatori nulla più di un gioco gaio ed agevole. Li piange Torino, percossa e stordita dalla prima notizia come dall’annuncio di una sventura collettiva; e lo sbigottimento e il dolore entrarono in ogni casa come se di ogni famiglia fosse scomparso il figlio diletto. E li piange la nazione che li amava, ne conosceva i nomi urlati tante volte nel calore di un incontro; e anche chi di calcio e di squadre non si è mai occupato, chi non ha mai assistito a una partita è sbalordito e commosso; sente oscuramente che qualche cosa di tutti noi è arso nel rogo sulla collina avvolta di fatale caligine insieme alla giovane vita dei campioni; ognuno di noi era loro debitore per qualche cosa, la gioia di vedere la bella squadra in cima alla classifica, l’orgoglio con la vedevamo partire per gli incontri internazionali, la nostra gratitudine di sedentari, di inerti, di sfiduciati per la gioconda volontà di vincere che ci offriva. Poveri ragazzi, loro certo a questo non pensavano. Erano contenti di tornare a casa, portavano nelle valigette il regaluccio per la mamma, le sorelle, l’innamorata e nella memoria il ricordo di qualche bella ragazza che aveva sorriso alla loro spavalda giovinezza ; preparavano le parole con cui si sarebbero scusati con i compagni e i dirigenti per non avere strappato la vittoria, se la promettevano brillante per la prossima volta. Erano spensierati e semplici anche se si sentivano avvolti dall’ammirazione e dall’affetto della gente; e ricambiavano quell’affetto, quell’aspettazione di grandi cose con una disciplina severa e volonterosa. Come soldati sono caduti, spensierati, semplici, colti a tradimento sulla soglia dell’accampamento. E ci suonano spontanee nella memoria le parole con cui i soldati ricordano i loro caduti « tutti giovani sui vent’anni, la sua vita non torna più ».

Sul luogo della sciagura poche ore dopo il tremendo urto.

Corpi carbonizzati, detriti e I resti dell’apparecchio; L’attimo dell’immane sciagura Cielo tempestoso raffiche di vento ~ Attesa ansiosa sul campo dell’Aeritalia – Schianto contro il muro posteriore della Basilica – Autorità e soccorritori sul posto ~ Il compianto della folla

Ieri sera stavamo scrìvendo questa cronaca dolorosissima, la più, dolorosa che certo, da anni, ci toccava di mettere sulla carta, il telefono nella sala della nostra redazione, continuava a trillare. Parliamo di telefono ma in realtà erano quattro o cinque, sei, dieci telefoni, che trillavano all’unisono formando una sola voce: come fosse una disperata, pressante invocazione. Si sapeva che cosa voleva apprendere la persona che stava dall’altra parte del filo. Non occorrevano molte frasi, molte spiegazioni. Appena, alzato il ricevitore, udivamo una voce di uomo o di donna, non importa, ci pareva sempre la stessa, la quale tremante ci chiedeva «E’ vero ? ». Noi non rispondevamo che con un monosillabo: «Si.’». L’interlocutore non domandava di più. Riferire di un fatto di questa gravità, di un fatto che ha sconvolto l’intera città di Torino, che colpirà tutta l’Italia e che risonerà ovunque, non è facile. Troppi sono i sentimenti che s’affollano nella nostra mente, troppe notizie si accavallano, troppi visi noti e cari ci appaiono in un solo momento. I cari nomi Ieri pomeriggio, sul campo dell’Aeritalia, si attendeva l’apparecchio che doveva giungere verso le 16,30 portando la squadra di calcio del Torino, reduce dal Portogallo ove, come è noto, aveva sostenuto l’incontro con il « Benefica ». Si attendevano i nostri cari campioni, i più noti, quelli che ad ogni avvenimento sportivo erano sulla bocca di tutti, seguiti da una specie di commovente devozione, dall’ ammirazione per le loro imprese. Giocatori del «Torino », figure popolari, erano: Bacigalupo, Martelli, Castigliano, Grezar, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola, Ballarin I, Ballarin II, Operto, Maroso, Fadini, Bongiorni, Grava, e Schubert. Li accompagnavano i dirigenti: Agnisetta, Civalleri, Egri; l’allenatore inglese Lievesley e il massaggiatore Cortina, e i fedeli giornalisti e cronisti della loro attività: Cavallero, Casalbore e Tosatti. Pilotava l’aereo il comandante Meroni. Nella, palazzina del campo assieme al personale di volo si trovavano i soliti affezionati che vanno puntualmente a ricevere i « granata » al ritorno da ogni loro trasferta. Qualcuno, guardando fuori dalle finestre si mostrava preoccupato: dopo un fugace accenno di schiarita, avvenuto nel primo pomeriggio, le nubi si erano più rinserrate e fatte fosche: dalle 15,45 circa la pioggia scendeva copiosamente. Tuttavia non c’era nessuna vera e propria apprensione. Quasi tutti leggevano, per ingannare l’attesa i giornali della sera.  Sulla Stampa Sera, nell’ultima pagina, il nostro Luigi Cavallero dopo le considerazioni sulla partita, dichiarava «Stamane i granata si sono alzati presto per prepararsi al ritorno. Tra poche ore l’aereo, che ha trasportato a Lisbona i dirigenti, giocatori, giornalisti, spiccherà il volo per atterrare all’Aeronautica di Torino, tempo permettendo, verso le 17. Che le nubi ed i venti ci siano propizi e non facciano troppo ballare… ». Frattanto l’Ufficio radiotelegrafico del campo, aveva preso contatto con il collega sull’aereo. Si veniva così a stabilire un legame fra quel gruppo di persone che attendeva nella palazzina e coloro che in quell’attimo si trovavano a grande altezza, in un mare di nubi, sballottati dai venti sotto le raffiche della pioggia. Tenue legame che però bastava a dissipare quelle preoccupazioni che potevano essere sorte nel frattempo. L’apparecchio dunque stava approssimandosi a Torino e manteneva la rotta nonostante il cattivo tempo. Tuttavia, nell’ufficio radiotelegrafico tale ottimismo non era completamente condiviso non che si pensasse minima mente ad una sciagura orrenda, quale doveva accadere, ma sì pensava che l’atterraggio si presentasse piuttosto laborioso. Le segnalazioni infatti provenienti dall’apparecchio non erano del tutto confortanti. Le nubi gonfie di pioggia, formavano attorno all’apparecchio una cortina spessissima e la visibilità era ridotta al minimo. Il vento poi, violento, ostacolava la marcia. Un minuto prima delle 17, una comunicazione segnalava che l’aereo navigava a quota duemila. La trasmissione continuava. Ormai ai avvicinava il momento in cui non solo il radiotelegrafista del campo avrebbe potuto avere legame con il velivolo, ma tutti, tutti avrebbero potuto percepire il rombo possente dei suoi motori, l’annuncio fragoroso del suo arrivo. Invece quei motori più nessuno, al campo dell’Aeritalia, li avrebbe sentiti. L’ora di un atroce destino stava per scoccare.

Una frazione di secondo

Alle 17,5 precise, improvvisamente il ricevitore del campo taceva. Il radiotelegrafista, impressionato, sollecitava più e più volte. Silenzio. Tuttavia non era quello ancora il momento in cui si pensava alla catastrofe: si pensava piuttosto ad un guasto della radio di bordo. Il pilota avrebbe cercato di «arrangiarsi » senza l’ausilio delle segnalazioni da terra. Ormai l’aereo era su Torino. Sì trovava a quota duemila… Ma perché non si sentiva il rumore dei motori? Perché il velivolo ritardava ad arrivare sulla città? E far sentire con la sua voce che era lì, che era giunto sano e salvo, che stava per riposarsi finalmente dopo la lunga corsa in mezzo alla tempesta da Lisbona a Barcellona e poi in un sol balzo fino a Torino? Nessuno al campo immaginava che cosa fosse successo nell’attimo subito dopo il silenzio. Un attimo, un soffio, la frazione dì un secondo: in quel brevissimo spazio di tempo era accaduta la catastrofe.

Bagliore nel cielo

 Catastrofe. E’ una parola che a scriverla e a pronunciarla fa scorrere un brivido nelle vene. Catastrofe. Una cosa orrenda. Una cosa da cui la mente rifugge. Una cosa che sbigottisce ed annienta, che lascia un solco incancellabile. Ma questa volta bisogna proprio scriverla, bisogna proprio pronunciarla. Una catastrofe orribile è avvenuta. Alle 17,05. Quando il ricevitore è rimasto muto. In quell’attimo. La catastrofe è avvenuta a qualche chilometro dalla pista di atterraggio. Sopra la città. La catastrofe è avvenuta sul colle di Superga. Proprio dietro alla Basilica. Poco dopo le ore 17 alcuni clienti del ristorante che si trova quasi sul piazzale udivano uno strano rumore; era come se una grossa macchina, più che un càmion, una grossa cilindrata americana, venisse su a tutta velocità verso la Basilica. Ad un tratto quel rumore si cangiava in un altro rumore secco, indefinibile. Poi più nulla. Alcune di queste persone più incuriosite che allarmate uscivano dal locale. E subito si rendevano conto che qualcosa di estremamente grave doveva essere successo. Infatti un’automobile arrivava a velocità pazzesca dal piazzale e si inchiodava, con una brusca frenata dinnanzi al ristorante. Lo sportello s’apriva violentemente un signore ne usciva stravolto gridando « Un aeroplano, è caduto dietro la Basilica. Bisogna telefonare! Bisogna chiamare soccorso». Poi entrava nel locale e precipitatosi al telefono avvertiva i vigili del fuoco di Torino. Erano le 17,12. Ma c’era chi aveva quasi assistito al disastro; alcuni abitanti della frazione di Superga e in particolare modo il muratore Amilcare Rocco. Sull’orto del Rocco era passato a pochi metri il velivolo prima di sfasciarsi contro il terrapieno sul quale è la Basilica. Il muratore era nella sua casetta. Che dista ben poco dal luogo della catastrofe. Egli era rimasto scosso dal fragore dello schianto. S’era precipitato fuori in tempo per scorgere un grande bagliore che per un attimo illuminava il cielo grigio. Poi scorgeva una colonna di fumo nero, denso, che saliva con rapide volute. Terrorizzato urlava: « Un aeroplano! S’è schiaccialo un aeroplano nel giardino della Basilica ». Ma quella del muratore non era la sola voce. Altre, altre persone avevano udito il ronzio del velivolo a distanza: ronzìo che si era tramutato in rumore assordante: e poi le loia orecchie erano state ferite dall’orrendo fracasso dell’urto. Sul posto, oltre al Rocco, accorrevano i carabinieri della stazione di Superga. E dietro loro decine e decine di uomini e donne della borgata. Lo spettacolo era atroce: sul muro di fondo del giardino, che si trova sotto la Basilica, si notava un foro quasi circolare del diametro di quattro metri circa. L’apparecchio aveva picchiato lì, si era schiacciato, incassato, contorto, frantumato. I rottami erano ricaduti sulla spianata del giardino: le fiamme ancora li avvolgevano e al bagliore delle fiamme gli accorsi potevano vedere numerosi corpi straziati. Nessuna parte del velivolo, nell’urto tremendo era volata lontana come spesso accade. I motori, le ruote, il timone, i pezzi di ala, erano tutti raccolti, compressi nel terreno, in una area ristretta. Ma l’attenzione dei carabinieri e delle persone portatesi sul posto non veniva più a lunga, attratta dalla massa informe dell’aereo. Tutti avevano un solo pensiero: correre presso quei miseri corpi che si vedevano accanto ai rottami arroventati, recare, se possibile, un soccorso. Strappare, se possibile, alla morte qualcuno dei passeggeri. Ma quando ì più animosi si avvicinavano ai resti fumanti, si accorgevano che ormai non c’era più nulla da fare. La sciagura aveva coinvolto tutti, non aveva risparmiato nessuno. Gli uomini che pochi istanti prima erano vivi, respiravano, parlavano sull’apparecchio, giacevano su quel terreno riarso dall’incendio con le carni straziate, martoriate.

Le vittime tra i rottami

« Chi sono? Da dove verranno ? » erano queste le domande che rimbalzavano di bocca in bocca. Sotto la pioggia, al riverbero degli ultimi guizzi delle fiamme,’tra il fumo, carabinieri ed abitanti di Superga si aggiravano smarriti. Ad un tratto qualcuno scorgeva sul terreno accanto ai resti dei corpi, due magliette granata con lo scudetto tricolore. Era una folgore che passava nella mente di chi aveva scorto quei due indumenti. « E’ l’apparecchio del Torino! Sono i giocatori del Torino che vengono da Lisbona!». La notizia subito si diffondeva a Superga, correva giù per frazioni e casolari in tutta la collina. E attraverso il telefono arrivava in città. Frattanto, come abbiamo detto, era giunta alle 17,12 alla caserma delle Fontane l’angoscioso appello ed i vigili del fuoco erano partiti immediatamente con un distaccamento e una autobarella. Sulla scia dei pompieri salivano al colle barelle della Croce Rossa, della Croce Verde, alcune jeeps della Celere, della Polizia stradale, funzionari e agenti di Polizia, reparti di carabinieri e subito dopo le autorità: il Prefetto, il Sindaco, il Questore, numerosi consiglieri, e tanti e tanti altri: il rag. Giusti, segretario del Torino, che era ad attendere la squadra sul campo, assieme al direttore del campo dell’Aeronautica, l’ing. Catella, l’avv. Giovanni Agnelli, presidente della Juventus, alcuni giocatori della squadra bianconera fra cui Hansen, Depetrini e Rava. I primi a giungere a folle velocità erano i pompieri i quali innestata una conduttura ad una «bocca» sul piazzale, si prodigavano a spegnere i residui di incendio.  La loro opera veniva condotta a termine in pochi minuti. Si poteva così avvicinarsi meglio ai rottami, ed estrarre i primi resti umani. Triste opera sotto la pioggia, con gli uomini curvi sui tronconi carbonizzati, gli impermeabili lucidi, i visi rigati di gocce e di pianto.

Indicibile commozione

La folla che in un primo tempo era penetrata nel giardino, veniva respinta sul piazzale dalla forza pubblica. Si tentava di identificare i corpi (o meglio quel che ne rimaneva) pietosamente composti su barelle. Ma tale tentativo risultava subito vano, dato che non sussisteva più nessun volto. L’identificazione era legata a piccole cose, a tenui prove: una cosa di estrema gravità, di estrema delicatezza che non si poteva evidentemente compiere in quel luogo ed in quelle condizioni. Perciò si veniva nella determinazione di trasportare i cadaveri alla camera mortuaria del Cimitero generale e là procedere con maggiore calma alla identificazione, presente l’autorità giudiziaria Tuttavia già sul momento si poteva conoscere il nome di qualcuno fra i periti. Un carabiniere trovava il passaporto del direttore di Tuttosport: un piccolo rettangolo di carta bruciacchiata in cui si riusciva ancora a leggere un nome noto agli sportivi di tutta Italia: Renato Casàlbore. Quasi contemporaneamente veniva ritrovata la carta di identità di Aldo Ballarin, il terzino destro che tante volte difese con valore i colori azzurri della nostra Nazionale. Valigie sconquassate, cappelli, indumenti, carte, portafogli, borse, scarpe, tutto rovinato, bruciacchiato, sformato; e tutto veniva accuratamente, amorosamente raccolto per essere trasportato in città. Tre ore durava questo pietoso compito: sulla cima di Superga la nebbia filtrava tra la pioggia con un fumo tra sbarre: sbarre di pioggia, zampilli, che scendevano sferzanti, inesorabili. Il vento era cresciuto di intensità ed arruffava i capelli di tutti quegli uomini che si aggiravano oppressi dalla sciagura, in quel fango, in quel grigiore, sotto la grande Basilica muta. Se straziante era lo spettacolo, sulla cima del colle, lungo la strada che sale serpeggiando da Sassi, lo spettacolo era commovente. L’aggettivo non è fuori posto. Spettacolo commovente. Parliamo delle automobili, dei camioncini, delle motociclette che si arrampicavano per l’aspra strada: sopra v ‘erano appassionati sportivi, amici, conoscenti: o semplicemente delle persone che avendo appreso della sciagura, correvano incredule, angosciate per accertarsi con i loro stessi occhi. Parliamo soprattutto di coloro che abbiamo visto sotto il rovescio dell’acqua, andare a piedi, sulla strada per Superga: andare a piedi e camminare lungo il bordo; riparandosi alla meglio, spesso con la giacca gettata sulla testa. Sull’ultimo tratto di strada sotto il piazzale l’ingorgo delle macchine era addirittura pauroso: parafango contro parafango, camion a ridosso, di piccole vetture, motociclette e micromotori che s’insinuavano in stretti corridoi. Tutti coloro che arrivavano in prossimità del luogo della sciagura chiedevano subito: «.Qualcuno è vivo? » Questa domanda non aveva risposta. O meglio: chi se la sentiva rivolgere e «sapeva», allargava le braccia in un gesto sconsolato o abbassava il capo senza dire nulla. Nel vasto piazzale s’erano andate adunando via, via, centinaia e centinaia di persone. E quello che colpiva di più era che questa folla, questa grande folla, era silenziosa. Le notizie erano già purtroppo risapute. Tutti rimanevano immobili attendendo non si sa bene che cosa. Molti piangevano sommessamente, tutti erano annichiliti. «Ora so che purtroppo è vero » diceva un signore « ma a me sembra di non potermene mai convincere. Continuo a ripetermi che sono morti, che sono tutti morti, eppure mi ribello, non voglio crederci ». Verso le 19,30, mentre le ombre della sera calavano rapidamente la folla si apriva per lasciare passare le autoambulanze su cui erano state deposte le misere salme. Al termine della discesa, accanto alla stazione di Sassi, sostavano tre o quattrocento persone: ogni macchina che appariva proveniente da Superga veniva fermata, si chiedevano notizie. Si seppe che le autoambulanze stavano arrivando. Quando passarono, il brusìo cessò. Tutti tacquero e si scoprirò no. Le donne dicevano: « Ci sono i ragazzi del Torino ». E piangevano. Appena la tremenda notizia ha avuto conferma, una domanda è aorta immediata: « Quali sono state le cause della sciagura? » Diciamo subito che a tale domanda non si può per ora rispondere. Soltanto una inchiesta che immaginiamo verrà aperta sollecitamente, chiarirà queste cause. Le supposizioni sono molte: si ritiene di poter escludere un guasto all’apparecchio: tutte le persone che si trovavano a Superga nel momento della catastrofe sono concordi nell’affermare che il battito dei tre motori del G. 212, era regolarissimo fino all’istante dell’urto. E allora? Sei minuti prima, ricordiamo, dall’apparecchio era stata segnalata la quota: 2000 metri. Sei minuti dopo il velivolo si trovava a quota 650 circa e sbatteva contro il terrapieno. Come mai è avvenuta questa rapida discesa? Forse il pilota era sicuro di trovarsi già sulla città, in prossimità del campo? Potremmo riferire altre ipotesi che ieri sera circolavano: ma è ancora troppo presto, mancando nel modo più assoluto

L’angoscia di Torino

[…]
Grande Torino, la prima pagina dedicata alla tragedia su La Nuova Stampa ( La Stampa) del 5 maggio 1949

Giorgio Bocca

“Quel Grande Torino non era solo una squadra di calcio, era la voglia di Torino di vivere, di tornare bella e forte; i giocatori del Torino non erano solo dei professionisti o dei divi, erano degli amici. Era la voglia di vivere, di sentirsi di nuovo cittadini di una città viva e concorde che ci prendeva alla gola quando passavamo davanti alle macerie di piazza San Carlo, di fronte agli edifici sventrati”

Giorgio Tosatti (figlio di Renato Tosatti, giornalista morto nella tragedia)

Il Filadelfia. Uno stadio dove il Torino non aveva mai perduto per quasi sei anni, dove in cinque campionati le squadre ospiti erano riuscite a portare via appena otto punti. Un vecchio stadio da trentamila posti, gradinate e tribune a un metro dal terreno. Quando i granata battevano la fiacca, succedeva anche a loro, c’era un trombettiere che suonava la carica e capitan Valentino si rimboccava le maniche. Allora il Toro si scatenava, sembrava che in campo ci fosse un’invasione di maglie granata e i gol fioccavano.

Massimo Gramellini

Nella mia fantasia Valentino Mazzola era l’eroe buono dai poteri sovrumani: mio padre mi raccontava di quella volta al Filadelfia che il Capitano aveva salvato un gol della Juve sulla linea di porta , lui aveva alzato gli occhi al cielo per il pericolo scampato e quando li aveva riabbassati sul campo il Capitano era già nell’area della Juve a fare gol.

Giampaolo Ormezzano

Quella squadra era una forza terrena, operaia, molto piemontese messa insieme in modo geniale dal presidente Ferruccio Novo.

Ho visto il Grande Torino vincere partite già perdute e stravincere partite già vinte. Non ricordo di averlo visto mai perdere.

“C’era una volta, il Grande Torino…” di Beppe Barletti, Rai1 Maggio 1989, 40 anni tragedia Superga

Federico Buffa – Il Grande Torino

In questa amichevole tra Italia e Ungheria ben 10 giocatori sugli 11 titolari è del Torino.

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4 comments

  1. Sono del ‘39 e ancora oggi a 79 anni, sento la mancanza di questi Grandi del calcio Italiano.

    • Gentile Antonio Bario, la ringrazio – ben in ritardo, con colpevole ritardo di cui mi scuso – per il suo gentile e sentito commento. La ringrazio e la ringraziamo di cuore.

  2. Avevo sette anni e mio cugino tifoso del Torino, trafelato e piangente, ci diede la notizia appena appresa per radio.
    Era sconvolto e udii da lui dire che avrebbe preferito morire lui stesso al posto dei giocatori della Grande squadra .
    Ero di fede iuventino, ammaestrato qualche anno prima dal fratello più grande della stessa fede, ma rimasi attonito e piansi anch’io per la commozione.
    Sono stato a Superga varie volte ed ho onorato con il pensiero ed il ricordo il Grande Torino, ed ho pure accompagnato sul luogo della sciagura un carissimo amico di Como, deceduto pochi mesi fa, grande tifoso del Toro, che aveva trasformato il suo box dell’auto in un contenitore pieno di svariati cimeli della sua squadra del cuore.
    Onore eterno al grande Torino, storia irripetibile del calcio!

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