Il gusto delle parole: il cibo come misura della lingua

 

 

Il gusto di una vocale, l’aroma di un significato, la consistenza sotto i denti di un proverbio. Insomma, il
gusto delle parole e della lingua
: un piatto ricco, ricchissimo, in cui alimentazione, gastronomia, scienza della nutrizione e storia della nutrizione fanno ora da piatto principale, ora da contorno o da condimento a psicologia, antropologia, etnografia, etnologia, letteratura, cinema, teatro, semiotica e ovviamente linguistica.

 

Il legame tra cibo (parola di etimo non certo, da alcuni messo in relazione alla parola greca indicante la sacca in cui si metteva il cibo) e lingua – la lingua con cui si mangia, in senso concreto, e la lingua con cui si parla, nel senso dell’abilità cognitiva e comunicativa che contraddistingue la nostra specie – è così intricato da non lasciare scoperto alcun ambito della nostra vita. Così stratificato da fare affermare a Domenico Silvestri (studioso della lingua, delle lingue e del loro funzionamento che negli ultimi vent’anni ha guidato la costituzione di veri e propri atlanti su alimentazione, lingua e numeri nelle lingue del mondo) che il mangiare, insieme al parlare e al contare, costituisce un’attività complessa e fondante delle nostre vite. Che l’essere uomini si misura sul mangiare, sul contare e sul parlare e nel fare spesso queste attività insieme.

Per questa ragione troviamo il cibo, la sua preparazione, le modalità della sua somministrazione, in tutte le pieghe della lingua: nelle metafore, nei proverbi, nelle espressioni idiomatiche, in singole parole la cui componente alimentare, calata nella rete del significato, risulta insospettabile al parlante se non le si passa al setaccio dell’etimologia.

Si nasce, per esempio, e si è lattanti o infanti, il primo termine da ciò di cui si nutre il cucciolo di uomo, il secondo dall’attività fondamentale che ancora non è in grado di svolgere, il parlare; si cresce, si diventa adolescenti, e si inizia a cercare l’altra metà della mela. O dell’arancia, come dicono gli spagnoli, la media naranja.

Poi ci si accasa, ci si sposa, e si va in luna di miele. Un tempo però, nella società contadina in cui poco si poteva concedere al lusso e si era concentrati sui bisogni primari, la funzione e gli oneri corrispondenti ai diversi membri della famiglia erano spesso misurati sul pane. Ecco perciò espressioni quali chi ha mamma ha pane, ogni figlio porta un pane, chi mi dà pane chiamo padre; oppure, sul pane che si dà, il pane che dai alla moglie è pane perso, il pane dei figlioli è pane che riavrai anche nella variante ai figli è pane che presti, al padre e alla madre è pane che rendi, alla moglie è pane perso.

La dimensione della sussistenza nel proverbio è, del resto, dopo quello relativo al sesso, l’ambito che ricorre maggiormente; tra le componenti utili a garantire la sopravvivenza l’alimentazione non è però la prima per frequenza nei proverbi. È preceduta infatti dal denaro.

Per quanto riguarda i proverbi alimentari, il primo posto – e la cosa non sorprenderà – è detenuto dal pane, usato anche nel significato di cibo tout-court (il pane è sovrano; è il pane che para la fame; pur se mangi miele e ciliegie, povero quel ventre dove pane non entra), e, il secondo posto, con una frequenza sensibilmente inferiore, dal vino, «che agli occhi dell’italiano del passato anche recente appariva, più che una bevanda, il principale… companatico» (T. Franceschi, “Pane e vino nell’atlante paremiologico italiano”, in D. Silvestri, A. Marra, I. Pinto, Saperi e sapori mediterranei. la cultura dell’alimentazione e i suoi riflessi linguistici, Atti del convegno, Napoli 2002, pp. 175-185).

Ecco allora che se il pane fa buon cibo, il vino fa buon sangue e, in riferimento ancora alle mogli spesso strapazzate nei proverbi, pane fresco, vino vecchio e moglie giovane anche nella forma essenziale vino vecchio e donne giovani.

Del resto belle donne, vin buono, mai stufa e le belle donne e le botti di buon vino son le prime a finire. Vino e donna fanno uscir matti gli uomini o anche fanno uscir gli uomini di melone o di zucca (non repertoriato nell’Atlante).

Il connubio vino-donna cessa però con l’età: quello che vale per il vino, che più è vecchio più è buono, non sembra infatti valere per la donna…

Mangiando pane e bevendo vino passano gli anni e ci si ritrova vecchi: il vino passa ad essere rappresentato come il latte dei vecchi o la poppa dei vecchi; fa ballare i vecchi, stare allegri e, a due dita al giorno, fa prendere a calci il medico.

Si potrebbe andare avanti e intrecciare invece che agli e cipolle proverbi proprio su pane e vino: si otterrebbe una treccia di circa ottocento proverbi, essenza di una vita in parte sorpassata, in parte pienamente attuale. Nel primo caso i relativi proverbi non risulterebbero comprensibili al parlante di oggi, nel secondo invece sì.

C’è poi chi il riferimento al cibo ce l’ha persino nel nome, in special modo nel nome di famiglia, il cognome. L’onomastica cognominale legata all’alimentazione è decisamente ricca: da Bevilacqua a Pappalardo, da Tagliabue a Scognamiglio (‘pulisci il miglio’). Con l’elemento Magna/Mangia/Pappa abbiamo, ad esempio, Magnaricotte, Mangiacarne, Mangiapera, Mangiacapra, Mangiafave, Mangiapanelli, Mangiabove, Mangiavacca e Magnavacca e Mangiavini (cfr. E. Caffarelli, “L’alimentazione nell’onomastica. L’onomastica nell’alimentazione”, in D. Silvestri, A. Marra, I. Pinto, op. cit., pp. 143-155). E l’elenco potrebbe andare avanti a lungo.

Non lo si farà per lasciare spazio a due altri riferimenti: quello alla maldicenza e quello al sesso che, come nel caso del proverbio, vede l’impiego di termini dell’alimentazione in cima alla lista dei modi con cui si possono chiamare il “coso” e la “cosa”.

La maldicenza, che sfocia negli allocutivi baccalà, carciofo, cetriolone, citrullo, ciriola, cefalo, gnocco, gnoccolone, giuggiolone, bietolone, broccolo, e, sul versante non vegetale, tonno, totano oltre a tantissimi altri appellativi che alludono alla persona poco sveglia, detta anche dagli occhi improsciuttiti o foderati di prosciutto e spesso rappresentata come più alta della media e che cammina ciondolando le braccia.

La seduzione sessuale, che porta a epitetare galletto o anche cetrone il maschio seduttore maldestro o pecorone quello troppo accondiscendente, assimilato al grado peggioriativo massimo a un polipo o purpo, per esempio in siciliano.

 

Cozza è invece, come noto, la donna poco attraente, quella rozza è accostata a una capra, quella poco acuta o poco intelligente a una gallina.

Per non dire del dominio del pisello, della fava e del favagello, della cicerchia e del cece, del fagiolino, del ravanello, del tubero, del porro, del lupino, della carota, della banana e del cetriolo, lo stesso della “bamboccitudine”, del cavolo usato come forma che richiama ma attenuadolo l’ormai abusato cazzo (probabile continuazione di un sostantivo del greco indicante l’albero della nave) e di tutti gli altri nomi di verdure, leguminose, cereali e frutti usati come termini di sostituzione degli organi genitali.

 

Dell’uomo che mangia e che parla, e che parla di ciò che mangia o di come mangia, dell’uomo che vive e si rappresenta il mondo e la sua vita in forma e a misura di cibo si occuperà “Il gusto delle parole“, un estrattore di succo linguistico attento a catturare odori e colori dell’italiano e delle pratiche culturali che attraverso di esso hanno preso forma.

***

N.d.r. questo articolo ripropone, modificandola, la versione scritta per il blog Tuttopoli.com di un intervento a “Il riposo del guerriero”, trasmissione domenicale di Radio24 andata in onda fino a settembre 2013, del 20 gennaio di quello stesso anno.

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