Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace.
Così un famosissimo adagio noto da generazioni in tutta Italia.
Tra tutto ciò che piace c’è però qualcosa che sembra piacere in particolare modo e che sembra piacere a tutti: si tratta del latinorum di marchi commerciali alimentari e non, parente solo ideologico di quel latino realmente alimentare noto come maccheronico, varietà del latino troppo spesso liquidata come secondaria quando, peggio, non del tutto trascurata.
Del secondo si dirà oltre.
Ora preme infatti spendere alcune parole su quel gusto di antico e importante che il latino sembra conferire a tutto ciò cui si associa. Pubblicità insegna, e non da oggi: i nomi commerciali che recuperano il latino o che, semplicemente, lo rievocano conferiscono a ciò cui rinviano un’aura di prestigio e di gravitas.
Basta scorrere, per verificarlo, una lista sommaria dei prodotti e delle marche in cui ricorrono: si va dagli elettrodomestici alle assicurazioni, dai detersivi ai prodotti farmacologici. Si spigolerà, per selezionarne alcuni, nella memoria collettiva, che li conserva e trasmette talvolta anche a dispetto dell’uscita di produzione della cosa denominata.
- Alimenti: Magnum, Algida, Lacrima Christi, Levissima, Felix, Fido (adattato alla morfologia italiana, da fidus), Mars.
- Elettrodomestici: Rex, Ignis (cui, con la precisazione che si tratta di greco, occorrerebbe aggiungere Ariston, ormai italianizzato anche per l’impiego frequente come nome di teatro o teatronimo).
- Assicurazioni: Securitas, Ausonia, Mediolanum.
- Detersivi: Ajax, Vim (liquido), Atlas.
- Accessori per la persona e abbigliamento: Sector, Onyx, Invicta (ai quali, se non si trattasse di greco, sarebbe da aggiungere il marchio Nike, noto in tutto il globo, e il più recente Diunamai).
- Cosmesi: Lux, Nivea, Venus.
- Arredamento: Habitat, Domus.
- Presidi medici: Sustenium.
- Informatica: Acer, Verbatim.
- Automobili: Taurus (che è anche marca di armi da fuoco), Integra (cui fanno eco, per continuità anche di casa produttrice, giacché si tratta in tutti i casi di automobili Lancia, le riprese dal greco di Omega, che è anche marca di orologi, Alfa, Beta, Delta, Ypsilon, Gamma).
- Categorie diverse: Viro (ferramenta), Omnia (modello di cellulare e nome di un’enciclopedia), Vix Sol (miscela fotochimica), Paulus (prodotto editoriale e nome di vino).
La forza di questi nomi, esito di una “[…] scelta di mercato per colorire i prodotti di una vocazione esotica più che per necessità, almeno sino agli ultimi decenni del Novecento, di lanciare i prodotti sui mercati internazionali” (E. Caffarelli, “Specificità e creazione del nome commerciale”, in a cura di F. Dragotto, O réclame … o reclamo. Divagazioni logologiche intorno alla pubblicità, Roma 2012, p. 59), è talmente chiara ai pubblicitari da averli sollecitati alla creazione anche di falsi latinismi: è il caso di Duplo, Findus, Alfa – falso perché in realtà acronimo di Anonima Lombarda Fabbrica Automobili – e di Tampax, da tampon ‘tampone’).
Se formati sul nominativo, questi nomi associano la caratteristica di brevità a una struttura ritmica che rimane impressa e spesso appaiono moderni al punto da essere talvolta presi per anglismi da chi non ha conoscenza della lingua latina, come nei casi di Onyx o Sector.
A latinismi e più in generale a classicismi e pseudoclassicismi va inoltre ad aggiungersi un’ulteriore folta messe di nomi commerciali in cui voci, o parti di voci, di parole latine e greche si sono innestati su una base ampiamente italiana, fino a sovrapporsi e intrecciarsi “[…] specialmente in alcuni àmbiti, come la farmaconimia (Cardiostenol, Hepatos, Gastralgin, Androcur, Euipnos, Noalgos, Dermaflogil), e altri prodotti legati a tassonomie scientifiche: es. Nipiol, prodotti alimentari per neonati, da nipiologia, la sezione della pediatria che si occupa del primo mese di vita del bambino (da népios ‘lattante’); o Cynar, dal nome scientifico del carciofo (Cynara scolymus)” (E. Caffarelli, Ibidem, p. 59).
Sintomatici di fiducia assoluta nella loro capacità di presa comunicativa anche su chi ignora le lingue di cui sono emanazione, questi prestiti o conii autonomi finiscono per sedimentarsi nelle menti di chi ne è destinatario in maniera non dissimile da quanto accade per citazioni o modi di dire.
Cosa che deve aver tenuto presente chi ha proposto la ripresa di veni vidi vici, che Giulio Cesare avrebbe pronunciato in occasione del rapido successo con cui, nell’estate del 47 a.C., aveva sconfitto l’esercito di Farnace II nel Ponto. Impiegato pochi anni fa nello spot Tim con protagonisti Neri Marcorè e Gigi Proietti, questo slogan anzitempo e senza età costituisce un esempio calzante di riuso del latino in chiave, anzi in salsa, pubblicitaria (cfr. F. Dragotto, Non solo marketing, Egea, Milano 2013).
Lo spostamento dalla salsa al salso, ovvero al saporito, al sapido, offrirà lo spunto per citare, seppure per grandi linee, la questione del latino maccheronico, al quale si è fatto già riferimento più sopra, non prima, però, di aver richiamato l’attenzione su una considerazione che occorrerà tenere bene a mente se si vuole davvero comprenderne fattura e proprietà.
Per dirla con le parole di Paolo Poccetti, tra i massimi esperti di linguistica dell’Italia antica,
Forse in nessun’altra civiltà antica al pari di quella romana lingua e consumi alimentari hanno raggiunto livelli di simbiosi e di intersezione così profonde nella stessa consapevolezza degli utenti. In larga misura – non sembri un paradosso – la storia dell’alimentazione a Roma e nel mondo antico ricalca la storia del latino. Entrambe poggiano sulla dialettica tra la continuità di principi basilari comuni e ricorrenti, l’unità di modelli costituiti e la pluralità delle varianti, l’incessante intrecciarsi delle variazioni nello spazio e nel tempo in subordine al mutamento dei generi di vita e della cultura. “Parabole alimentari e parabole linguistiche: dal linguaggio dei cuochi romani al latino maccheronico, al ‘latino da cucina’ (Latin de cuisine, Küchenlatein)… e oltre“, in Saperi e sapori mediterranei. La cultura dell’alimentazione e i suoi riflessi linguistici, a cura di D. Silvestri, A. Marra e I. Pinto, Atti del convegno, Napoli, 2002, p. 892.
Alimentazione e lingua segnano, perciò, di pari passo, parabole che sono anche narrative, giacché consentono di raccontare quelle storie che hanno visto succedersi a una romanità sobria e scarna, legata a una vita essenzialmente di tipo agricolo-pastorale, quella del Lazio e in generale dell’Italia delle origini – una romanità più borghese, raffinata e opulenta, prosperata sulla conquista imperialistica – e, più tardi, una invece segnata da carestie e calmieramenti, in epoca medio e tardo-imperiale.
Una funzione e uno status sociale di primo piano assume, in particolare nella seconda di queste tre fasi, la professione del cuoco, professione che, stando alle testimonianze, giammai nel corso della latinità tutta fu assimilata alle professioni di rango vile.
La parabola narra, infatti, per le professioni dei pistores, fornai-pasticceri e più tardi addetti alla panificazione, e dei coqui, il cui spettro di azione, in principio coincidente o vicino a quello dei pistores, si va via via caricando delle funzioni in precedenza proprie per esempio dei lanii (addetti al trattamento e alla manipolazione della carne), equivalenti non perfettamente sovrapponibili alla figura dei magheiroi della cultura greca, dal momento che in costoro si fondevano le attività del cuoco in generale e quella del macellaio-sacrificatore.
Nel nuovo orizzonte socio-culturale borghese che segna il punto più alto di quella parabola in cui i destini di lingua e alimentazione si saldano fino a segnare e a dettare, per entrambi gli ambiti, quelli che, da allora in poi, diverranno modelli di riferimento, il cuoco viene così ad assumere un potere prima impensabile per via della crescente funzione simbolica assunta dal cibo.
Cucinare e offrire pietanze ricercate ed elaborate, meglio ancora se dall’aroma esotico, equivaleva infatti, nella “lingua” della nuova borghesia romano-italica, a una dichiarazione di opulenza e di status profferita per conto del proprio padrone. Una lingua che, in senso stavolta stretto, si andava arricchendo di innumerevoli nuove parole che per costruzione suonavano greco, e bene, pur senza esserlo, proprio come si è visto per i falsi latinismi prodotti in seno alla lingua della pubblicità italiana.
Spiccano, tra le pieghe di questo “grecorum”, tanti termini dell’alimentazione, spesso formati unendo parole effettivamente usate in greco in termini composti, forgiati con l’intenzione “di sbalordire l’interlocutore solleticandone la curiosità e l’appetito” (P. Poccetti, Ibidem, p. 909).
Ingrediente di pregio impastato con perizia dai cuochi, il greco in bocca latina – bocca di necessità bilingue, perché, diversamente, i destinatari di quella lingua non sarebbero stati in grado di riconoscere la buona fattura del greco – si fa creatore ed esaltatore di una gerarchia pensata per contrapporre due mondi distanti: del primo fanno parte coloro che sono degni di una vera vita, di una vita che passa attraverso l’elaborata proposta culinaria di cui i cuochi sono portatori; dell’altro invece coloro che possono aspirare esclusivamente a una cucina da morti, una cucina vegetariana sobriamente condita, stando a ciò che riferiscono le fonti.
Di questa ripartizione, che costituisce, oltre che una contrapposizione tra vivo – e vegeto, verrebbe la tentazione di dire con un gioco di parole – e morto, anche una opposizione tra fuori e dentro, giacché la prima cucina cerca all’esterno della tradizione, in altre culture, ingredienti e spunti da innestare in menù che progressivamente si arricchiscono e specializzano, laddove la seconda è radicata nello spazio alimentare indigeno, si fa più volte cassa di risonanza la commedia, grazie alla quale si hanno oggi numerose informazioni utili per ricostruire le dinamiche che hanno portato alla formazione di tante varietà di lingua e di stili alimentari.
Per dirla ancora con Poccetti (Ibidem, p. 913), “Nella figura del cuoco si intrecciano l’ininterrotta tradizione latina, la riscoperta critica dei testi classici, la conoscenza del greco, la formazione delle lingue nazionali e la poliedrica molteplicità dei dialetti dell’Europa occidentale”.
Tutto ciò nello spazio di un millennio, una parabola cronologica che si conclude in epoca umanistica, quell’epoca in cui la contrapposizione tra ciò che è vivo e ciò che è morto tornerà in auge, stavolta per definire le lingue “moderne” rispetto al latino. E in cui l’espressione latino da cucina costituirà per antonomasia il serbatoio che riunisce tutte le forme di latino rozzo e bastardo restituite dai testi; un pasticcio di forme tra le quali spiccano quelle maccheroniche, gradino più basso di una ipotetica scala di disvalori perché frutto di impasti ottenuti dagli ingredienti più umili e poveri.
Da taluni associati proprio al magheiros, il cuoco del greco, che ne farebbe il prodotto dell’attività del cuoco, da altri a masso, parola per impasto, da altri ancora al vocabolo per il coltello, per via dell’ottenimento di ciascun maccherone dal taglio di un impasto omogeneo, da altri ancora ai beati, makarioi, per via dell’abitudine di consumare i maccheroni durante il banchetto funebre, indubbia e incommensurabile è l’importanza dei maccheroni e di ciò che questo impasto ha rappresentato da un punto di vista linguistico, giacché senza di esso non ci sarebbe stata quella reazione alla sclerotizzazione del latino umanistico dalla quale si sarebbero originate, impasti da impasti, trame di storie e di lingua che hanno fatto la grandezza di tanti letterati fondamentali per le diverse letterature europee: da Folengo a Rabelais e Molière […] fino a Gadda e oltre. Trame dal sapore antico che riempie la bocca e soddisfa il palato.