Il moralismo, il moralista

Il moralismo, il moralista suo adepto e la morale: tutto sembra scolpito nell’eterno, nell’impossibilità plastica ulteriore, nella sua ultima definitiva maturità e completezza.

Alberto Sordi ne “Il moralista”, film prodotto da Fabio Jegher del 1959, diretto da Giorgio Bianchi ed interpretato da Vittorio De Sica e Alberto Sordi

Il moralismo, il moralista suo adepto e la morale… Colonne d’Ercole inviolabili a pena di naufragi moralistici, esiziali per lo sfrontato viaggiatore dei mari torbidi di ciò che non è morale.

Morale ed onore, talora edipico, incestuoso rapporto, misura che si fonde nel misurato.

Non voglio e non posso toccare la morale come pietra miliare del ragionamento filosofico e come binario, esame e metro sociale. Niente di religioso o di religione, politeistica o monoteistica; niente Aristotele, Tommaso d’Aquino, Cartesio, Hobbes, Kant, Hegel fino alla moralità signore-servo di Nietzsche, fino a Weber, fino al 1981, al 1996, fino alle modifiche di codici penali, di arringhe avvocatesche e giudizi di Suprema Corte, e tutto ma proprio tutto quanto sta nel mezzo o sopra o sotto. Dai castighi fino all’esecuzione capitale di immorali, di oltraggiosi verso la moralità, dai maestri Socrate fino a  traviate o Traviata, Wilde e Turing,  allievi sviati e maestri immorali, disonorate e disonorati, oltraggiosi e blasfemi laici.
Nulla di tutto ciò perché non voglio cadere nel tranello diacronico teso all’uomo che assurge a sincronico e alla fissità immutabile. Niente bene contro male.
Niente utilitarismo, “efficienze” morali o matematiche di Pareto o di Nash.
Nulla, nemmeno il relativismo. Non intendo dire che non debba esserci morale o senso dell’onore, il moralista e sua corte, il buon senso e il buon costume, la buona condotta, la buona scuola, il buon lavoro, l’onorabile prestigio: non intendo strappare la donna e l’uomo, parti partecipanti di una comunità, alle regole della comunità stessa.
Certo, già dire comunità fa pensare etimologicamente ad un cammino, a un procedere, ad un andare via via più lontano dal punto in cui, per qualsiasi ragione, in quella comunità si è entrati o essa ha deciso di prender piede, di diventare cammino. Turnanti i membri, movente la comunità.

Della morale mi interessa il suo tempo intimo, e il suo tentativo di misurarsi senza un tempo e nel proclamarsi (o nel proclamarla…) spesso ultima, non plus ultra: mi interessa il suo essere quasi un ente sociobiologico, un dinamico processo sociale che ama vedere solo l’ultimo riflesso al suo specchio ed indicarlo come dipinto dell’immutabile, selfie dell’assoluto.

Non contesto la morale, non contesto il moralista, l’onore e l’onorabile onorato: vedo solo che spesso chi ne parla posa l’orologio, elimina l’agenda, occulta il calendario, si straccia le vesti, grida allo scandalo e strappa pagine di libri da questa o quella storia, iconoclasta furia convinta redentrice definitiva.

Eppure la morale… con tutte le sue variabili evoluzioni: la dichiarano sempre assoluta e migliore nel proprio tempo le madri e i padri, già tesi coi rispettivi fratelli, per poi sconfessarla e ribaltarla spesso i loro figli e i nipoti.

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