Alcuni anni fa, dovendo contribuire a un dibattito interdisciplinare sulla Dieta mediterranea italiana di riferimento orchestrato dall’amica e collega Laura Di Renzo, specialista di nutrigenomica della facoltà di Medicina del mio stesso ateneo, iniziai a prendere coscienza di una serie di cose che fino a quel momento avevo considerato esclusivamente nella prospettiva dello studio delle fonti documentarie, in primis filologiche, della dieta.
Solo dopo essere tornata più volte sull’argomento, per trattarne in contesti diversi e con tagli diversi, mi resi conto della ricchezza di spunti linguistici di cui i singoli ingredienti erano portatori. Ricostruire attraverso l’etimologia ‘la verità’ di un’erba aromatica o di una spezia sembrava infatti rendere possibile il recupero di qualcosa di tangibile: lo sguardo di uomini e donne di generazioni e generazioni precedenti, che in quelle erbe e spezie ‘vedevano’ ciò che poi trasportavano nel nome delle cose stesse. Facendone lingua.
Da quelle riflessioni, lasciate a lungo a macerare, trasse origine il contributo a un libro – La bellezza della semplicità. 50 ricette italo-croate tradizionali, a cura di Di Renzo L. – Sprem I. – Valente R. – De Lorenzo A. – concepito come invito a riscrivere il proprio concetto di ricetta, di una quasiasi ricetta, nel senso di una formula di sapere e di etnoscienza. Di sapere che si fa etnoscienza, ovverosia porta di accesso alla visione e alla classificazione del mondo propria di una certa cultura.
Oggi, trascorso altro tempo, vorrei invitare i lettori di Said in Italy a fare lo stesso, magari con l’auspicio che, ripercorrendo lo stesso sentiero, possano inizare a odorarne e gustarne la lingua. Per questo propongo loro la lettura di quel contributo, che tante volte ho immaginato e che ancora a lungo continuerò a immaginare di sviluppare in una sorta di dizionario etnografico.
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La bellezza della ricetta, formula di sapere e di etnoscienza.
Scrivendo dell’esperienza del linguaggio, un noto psicologo, Luciano Mecacci, scriveva una quindicina di anni fa che “l’uso quotidiano del linguaggio è tessuto dal filo giallo che lo lega alle procedure della mente, dal filo verde che lo intreccia alle forme della cultura e dal filo rosso che lo avvolge a contesti dell’interazione sociale” (Mecacci L. (a cura di), Manuale di psicologia generale, Firenze 2001, p. 178).
Mecacci, è evidente, non si riferiva a un linguaggio qualunque, bensì al linguaggio per antonomasia, per lo meno nella prospettiva antropocentrica a partire dalla quale gli esemplari della nostra specie descrivono il mondo e la sua organizzazione. Si riferiva al linguaggio verbale nella forma assunta dalle sue tante emanazioni, le lingue.
Di quegli stessi fili serbano tracce tutte le attività e, conseguentemente, i prodotti di quelle attività nella cui realizzazione si siano resi necessari
- il giallo delle capacità, cognitive e pratiche (o cognitive e poi anche pratiche),
- il verde di quel patrimonio di conoscenza condivisa e nella quale, a nucleo del patrimonio consolidato, ci si riconosce e identifica, e
- il rosso dell’interazione, dello scambio con altri nostri simili.
Non si sottraggono a questa condizione le pratiche relative al mangiare, un’attività che nel corso della storia degli ultimi millenni ha virato – almeno nella prospettiva etnocentrica del mondo occidentale – verso una varietà e complessità di soluzioni difficilmente sintetizzabili, almeno in un testo conclusus quale il presente.
“L’attività di mascella” – questo in principio il significato di manducare, il verbo latino formatosi dal nome della mascella, manduca evolutosi foneticamente in mangiare – si offre, infatti, all’osservatore di fatti di alimentazione non nutrizionista come il mirabile prodotto dell’avvilupparsi di questi fili, difficilmente analizzabili in qualcosa di diverso da un unicum.
Solitamente un cibo, parola greca che il latino ha fatto precocemente propria, è recepito dall’individuo al termine di un ciclo di “lavorazione” di durata e articolazione variabile, un ciclo che può essere letto nel senso della cognizione (si mangia qualcosa che si sa o si presume essere non velenoso, non dannoso e, anzi, preferibilmente buono), della cultura (si mangia qualcosa che è stato trasformato servendosi di una conoscenza fatta propria a partire dalla cultura comune del gruppo di cui si è parte), della socialità (la sodalità e il piacere insito nell’assunzione di cibo sono solitamente assunti a discrimen rispetto al mero sostentamento).
Messo da parte il discorso sull’alimentazione “primitiva” o primeva, intendendo con ciò convenzionalmente una alimentazione non elaborata, non ci si discosterà molto dal vero affermando che l’alimentazione, per come la conosciamo, è il risultato dell’impasto di questi tre ingredienti, nel senso latino de “le cose che entrano in un procedimento” proprio del verbo ingredior.
Proprio come nel caso del linguaggio verbale, nel linguaggio dell’alimentazione entrano in gioco unità minime che, opportunamente formate e combinate (alludo al set di regole fatto di possibilità e preclusioni di scelta connaturato alla morfologia e alla sintassi), determinano un prodotto (un messaggio, nei termini jakobsoniani fatti propri dalla semiotica) le cui forme sono suscettibili di quelle ulteriori modificazioni messe a disposizione dalle varie modalità di allestimento del piatto (per metonimia il contenitore e il contenuto) e del contesto cui è destinato.
Quanto ho appena sommariamente tentato di descrivere, potrebbe essere facilmente riassunto, nella lingua dell’uso, dal termine ricetta, un connubio di sapienza, di natura e di tecnica che trova nella sintassi delle procedure (“si faccia prima questo e poi quello”) la propria struttura portante.
Ricetta è, però, molto più di tutto questo, se al termine si guarda o meglio si accede per via etimologica.
Autodefinitasi fin dall’Ellenismo “il discorso sul vero”, la via di accesso alla verità di cui è portatore ciascun elemento linguistico, l’etimologia, seppur non specchio di verità assoluta, spesso al vero si avvicina e consente a chi la pratichi di avvicinarvisi.
E, nel caso di ricetta, questo avvicinamento si rivela ben più proficuo di ogni aspettativa.
Ottenuto per sostantivizzazione a partire dall’ellissi di quello che in partenza era l’elemento più importante del nesso formula recepta, il termine ricetta è connesso a capio e più esattamente ad un suo derivato (recipio).
Di capio si può affermare che si tratta di un verbo la cui semantica si è espansa a seguito della perdita di significato generico di emo, il termine in precedenza impiegato per “prendere”, passato a usi più settoriali.
Meno immediato lo slittamento del significato del suo derivato recipio, attestato per ‘l’atto di ritirare o di raccogliere’, a meno di non voler immaginare due attori impegnati l’uno nell’atto di prescrivere e l’altro in quello di ritirare la prescrizione. Il primo paziente e il secondo medico o, volendo generalizzare, il primo dispensatore/somministratore di formule e l’altro ricettore delle stesse.
Benché soppiantato da recepta, formula non appare però di minore importanza.
In principio diminutivo di forma (“piccola forma”), il termine si trova presto attestato per riferirsi alla regola, alla prescrizione, al modo di fare qualcosa. Ciò ha a che fare in prima battuta con il diritto, poi con la lingua della medicina, da cui la formula è stata recepita (!), ma, ancor più con un fatto alimentare. Forma infatti designa “lo stampo”, quello del formaggio, e solo in seconda battuta lo stampo per mezzo del quale si dà forma a un qualsiasi materiale.
Tralascerò il fatto che intorno al nucleo concettuale della forma si è formato, è il caso di dire, lo stesso formaggio, evoluzione fonetica di un *formaticum “cosa messa in forma (nello specifico il latte)”, sintomatico di quanto la procedura possa aver conquistato spazio anche a discapito dello stesso elemento di base cui è applicata.
E di quanto prestigio la forma, strumento di ordinamento di una realtà altrimenti informe, potesse godere, ulteriore e non secondaria prova reca l’aggettivo formosus, continuato nello spagnolo contemporaneo con il significato di “bello”, verosimilmente già antico e da connettersi alla bellezza dell’ordine. Ben fatto e perciò bello, si potrebbe chiosare.
Voglio però porre l’attenzione su un altro aspetto implicato dalla formula recepta, ovvero sulle conseguenze in chiave strettamente testuale.
La testualità, a differenza del sistema linguistico in sé e per sé, mal si presta a una descrizione che si esaurisca nella lingua: caratteristica fondamentale del testo è, infatti, la cosiddetta coerenza, il rispetto di quella logica che pone l’uomo, sorta di ponte, tra realtà linguistica e realtà extralinguistica. Di qui la difficoltà, se non l’impossibilità, di fare a meno del contesto per “leggere” il testo. Di fare a meno di quell’insieme di (pre)condizioni che consentono al testo stesso di realizzarsi, di avere uno svolgimento.
Adottando questa prospettiva, la formula recepta potrebbe finire per corrispondere al punto di vista del “paziente”, laddove recipe, la seconda persona singolare dell’imperativo, “prendi”, corrisponderebbe invece al punto di vista dell’“agente”. Un punto di vista che deve essere stato ben presto assunto a tassello dotato di autonomia lessicale, stante la conversione che ha fatto dell’imperativo un nome, recipe, in inglese (e nel mondo germanico) ‘ricetta’.
In mezzo la formula e la formularità, altro dato dalle conseguenze testuali (e non) non trascurabili.
Calata in una forma, la lingua della formula acquisisce paradigmaticità e un’aura di sapienza che si riverbera sul depositario della formula, su chi ne è a conoscenza ed è in grado di dispensarla.
Calata nella forma, la sostanza della formula riceve una cristallizzazione che ci si aspetta di vedere rispettata, fatto salvo quel margine di variazione cui la stessa poesia formulare ci ha abituati e che nel linguaggio delle ricette si spiega con la necessità di adattare il canovaccio della formula-ricetta ai prodotti di un luogo o di un altro, o, più sul piano linguistico, con il radicamento nella cultura che trova espressione nei cosiddetti geosinonimi, le serie lessicali accomunate da identità di designato e che, nel caso di quello che è chiamato cocomero del centro Italia, prevedono ove anguria ove melone d’acqua.
Assai più che linguaggio – di lì eravamo partiti – per la ricetta si viene definendo il ruolo di vero e proprio “linguaggio del sapere”, categoria di conoscenza cara a chi pratichi l’etnolinguistica o linguistica antropologica, l’ambito che meglio sembra fare da sfondo a considerazioni che guardino alle pratiche, ai riti del cibo e col cibo.
Attraverso il cibo ritrovano infatti continuità membra per ragioni di studio spesso disiecta; grazie al cibo è possibile riscrivere una geostoria accessibile attraverso i linguaggi della cultura e ciò che si annida nelle pieghe della lingua.
Per chiarire che intendo, farò una piccola colazione (allotropo di collazione, la raccolta di testi laddove l’altra era di avanzi del giorno prima) di sapori tra i più semplici e tipici del mondo (non solo) Mediterraneo: sapori e profumi e colori di erbe (di spezie) e di vino e di olio, termini che raccontano a chi li sa leggere del legame profondissimo e sottovalutato del Mediterraneo con la Mesopotamia e con il mondo indoiranico.
Le spezie
L’erba che cresce sul monte, per cominciare, ossia l’origano, pianta esemplare della macchia mediterranea.
[…] è uno di quei moltissimi arbusti profumati delle terre meridionali d’Europa che entrava come elemento prezioso nella composizione di salse fin dai tempi dell’antica Grecia. Così ci dice Aristofane nelle sue commedie, ove descrive le conseguenze nefaste (per gli altri) dell’amore sviscerato dei Greci per le salse a base di aglio.Sappiamo per contro che per secoli queste piante sono servite anche come deodoranti casalinghi e venivano tenute sulle finestre a far barriera ai miasmi della città (Bellini E. – Di Stefano A., Parole in libertà (vigilata), Milano 1997, p. 206).
Non con i monti ma col mare sembrerebbe invece aver a che fare il rosmarino, non ‘rosa marina’ ma ‘rugiada marina’, da ros roris in latino. Rugiada e non rosa, dunque, invece presente come primo membro nel composto rododendro, letteralmente ‘albero-rosa’, per l’intenso profumo emanato dai fiori della pianta.
Ancora col profumo, stavolta delle mele, ha invece a che fare la camomilla, ancora una parola composta ma da un avverbio dal significato di ‘a terra’ (chamaí) e da un sostantivo, per l’appunto, quello greco per ‘melo’, melon. Sorta di albero nano dai fiori dal profumo di mela, la citazione di camomilla servirà da pretesto per proseguire lungo il sentiero delle piante odorose.
Sono partita dall’alto, dai monti, con l’origano e mi sono mossa via via verso il basso così da includere il mare, con il rosmarino, e la vicinanza con il suolo, con l’albero-rosa. Con il suolo, più esattamente con il suolo pietroso è connesso il prezzemolo, un altro composto avente come primo membro il riferimento alla pietra e per secondo la base di ‘sedano’, selinon, pianta a cui il petrosino (altro nome per il prezzemolo) è apparentato per aspetto ma non per terreni di crescita, data la sua vocazione a crescere persino tra i sassi (vocazione che spicca se si guarda ai terreni grassi e fini in cui cresce il sedano o sellero). Alla medesima altezza rispetto al suolo, il basilico si distacca dalle altre piante odorose delle quali costituisce l’esemplare per antonomasia: le qualità che le sono attribuite, profumo in testa, hanno trovato una sintesi di elezione nella regalità che ne costituisce il nucleo semantico di base. Il nome è infatti in principio un aggettivo derivato dal termine greco per ‘re’ (basileus), presto convertito a nome a seguito dell’ellissi di pianta.
Non essendo mia intenzione procedere a una rassegna sistematica dei nomi delle piante odorose, mi servirò di un ultimo per riferimento per chiudere questa breve disamina e al contempo passare a dedicare una battuta al binomio olio-vino.
Mi servirò del sesamo, che nella prospettiva di chi elabora cibi accomunerò alle piante odorose. In sumerico infatti quello che noi chiamiamo sesamo suona come ‘pianta dell’olio’, un nome indicatore della “priorità designativa del prodotto”. Ciò che intendo dire servendomi delle parole di Domenico Silvestri, è che nel caso del sesamo, così come in quello del vino e dell’olio, non è a partire dalla pianta che si designa il prodotto ed eventualmente le sue forme elaborate ma l’esatto contrario.
E questa divaricazione tra tassonomia naturale e tassonomia culturale si ripete ogni volta che ci si trova di fronte a “frutti” (in senso etimologico) ritenuti strategici. Fondanti della stessa esperienza umana.
Sarà infatti analogamente il vino a dare il nome alla vite, e non il contrario (Silvestri dimostra puntualmente la trafila anche dal punto di vista morfologico), e l’oliva a fornire il nome al frutto, in latino come in greco (lingua dalla quale il latino, per il tramite etrusco, ha “importato” il nome dell’olio e dell’oliva), come nelle lingue della Mesopotamia, nelle quali si trovano attestate le forme che hanno fatto da modello ai nomi mediterranei.
Nella grande trafila culturale dell’alimentazione mediterranea questi due fondamentali alimenti presentano pertanto un’ipercaratterizzazione indomesopotamica-anatolica e una ricategorizzazione greco-etrusco-latina: questo è il bilancio che si può trarre insieme all’importante corollario che la preistoria recente e la protostoria, dal punto di vista alimentare (e non da questo soltanto!), non si possono appiattire in un’indifferenziata collazione di termini arcaici, ma hanno bisogno di opportuni inquadramenti prospettici e di un abbozzo di cronologia relativa per apparire almeno plausibili (Silvestri D., ‘Saperi e sapori mediterranei’, in Manetti G. – Bertetti P. – Prato A., Semiofood. Comunicazione e cultura del cibo, Asti 2006, p. 67).
Nutrendosi anzi manducando gli alimenti denominati con queste parole si assumono sostanze fondamentali nutritive e insieme culturali; ci si nutre di un nucleo di conoscenza “vecchio quanto il mondo”. Questo discorso potrebbe così proseguire alla volta di quegli scenari che siamo soliti associare alla dimensione edenica, a noi nota per lo più attraverso le riscritture bibliche. Riscritture di antecedenti mesopotamici nelle quali vita e caratteristiche e autorappresentazione degli uomini si intrecciano con quelle della terra.
Si intrecciano e si riscrivono epoca dopo epoca, consentendo a una ricchezza incommensurabile di sapori e con essi di (etno)saperi di perpetuare l’identità dei popoli che di quelle ricette si servono.
Francesca Dragotto
Insegna Linguistica generale e sociolinguistica presso l’Università di Roma Tor Vergata ed è autrice del blog Tuttopoli.com e del videoblog Sentieri di parole di Zanichelli.it’