Nato ad Alessandria nel 1931 si è spento a Milano all’età di 84 anni. Polivalente in una società iperspecializzata, Umberto Eco è stato filosofo, semiologo e attento conoscitore e critico della comunicazione come della società contemporanea. Da poco aveva fondato la casa editrice “La Nave di Teseo”, dopo il polemico addio a quella che lui aveva definito “La Mondazzoli”, a seguito della fusione tra Mondadori-Rcs. Nel giornalismo è stato anche firma di Repubblica e de l’Espresso
Umberto Eco era nato il 5 gennaio 1932 ad Alessandria. I suoi primi anni di studente lo avevano visto già proiettato nell’attivismo sociale, con la sua adesione alla Giac (l’allora ramo giovanile dell’Azione Cattolica). Si laureò in filosofia nel 1954 all’Università di Torino con con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino, a riprova del suo profondo legame con la filosofia e cultura medievale.
La sua prima pubblicazione è a 24 anni nel 1956, libro che riprendeva la sua tesi di laurea e intitolato Il problema estetico in San Tommaso (edito da Edizioni di Filosofia e poi riproposto da Bompiani nel 1970). Di questo periodo e delle evoluzioni successive è interessante leggere quanto ne scrisse tre anni addietro il filosofo torinese Gianni Vattimo, assieme al quale Eco nel 1954 aveva partecipato e vinto un concorso della Rai
Eco è sempre Eco
31/01/2013, L’Espresso [http://giannivattimo.blogspot.it/2013/02/eco-e-sempre-eco.html#more]di Gianni Vattimo
Due fasi nel pensiero del grande intellettuale? No. Leggendo la raccolta degli “Scritti sul pensiero medievale”, dice il filosofo, si nota la coerenza del metodo. Tomista.
Dovremo dunque riconoscere che c’è un primo Eco e un secondo Eco, così come si parla comunemente di un primo e secondo Heidegger o di un primo e secondo Wittgenstein? Una questione rilevante, perché è certo che uno degli elementi che tengono viva la ricerca su un autore, e dunque la fortuna delle sue idee, oltre alla mole del suo eventuale “Nachlass” di inediti da scoprire decifrare, pubblicare (Nietzsche, Benjamin come sommi esempi), è anche la questione dell’eventuale evoluzione o trasformazione interna del suo pensiero, con tutti i risvolti biografici e storico-generali (qui soprattutto Heidegger: il secondo Heidegger è nato con la scelta nazista?).
A tutte le ragioni della già stragrande popolarità di Eco se ne aggiunge dunque una che finora non era apparsa, e ciò accade principalmente con la pubblicazione, nella collana Bompiani del Pensiero occidentale diretta da Giovanni Reale, dei suoi “Scritti sul pensiero medievale”. Sono 1.332 pagine di testi che, partendo dalla tesi di laurea (uscita nel 1956) su “Il problema estetico in Tommaso d’Aquino” (discussa a Torino sotto la guida di Luigi Pareyson) e fino alla “Intervista (immaginaria) a Tommaso d’Aquino” per il “Corriere della Sera”, (2010) includono tutto (o solo probabilmente tutto) l’Eco medievalista, costituendo una sorpresa non solo per i lettori dei suoi scritti più recenti (filosofia, semiotica, romanzi, giornali, enciclopedie e storie della cultura) ma anche per coloro che lo hanno seguito fin dagli inizi della sua carriera di pensatore. (Sia detto tra parentesi, chi scrive fu uno dei primi recensori del libro su San Tommaso e degli studi sull’Estetica medievale negli anni Ciquanta del secolo-millennio scorso. “Quantum mutatus ab illo”, dice Enea a Ettore nell’Eneide).
Più che tentare di raccontare il volume ora in libreria (costa relativamente poco, 35 euro; e si legge come si legge sempre Eco, anche nelle pagine apparentemente più impervie, con vero divertimento e profitto intellettuale), leggere o rileggere questi testi raccolti insieme spinge a tentare di vedervi la filigrana di una biografia intellettuale che, per l’ampiezza della fama raggiunta dall’autore, va ben oltre l’interesse di una vicenda personale e diventa una sorta di documento d’epoca. Come lo stesso Eco racconta di aver proceduto negli studi sui medievali, si tratta di collocare anzitutto i testi nel clima storico in cui sono nati. Gli anni Cinquanta in Italia e in Europa: così la tesi su San Tommaso comincia con il proposito di riconoscere l’estetica medievale liberandola dalle tenebre in cui l’aveva relegata la cultura idealistica dominante, soprattutto Croce. Il seminario di Estetica dell’università di Torino, dove era arrivato da poco Pareyson autore della prima, e forse unica, grande estetica davvero post-crociana, è l’ambiente in cui il lavoro di Eco matura. Pareyson è un cattolico liberale, Eco in quegli anni è anche esponente del movimento studentesco cattolico, ma ciò che hanno in comune è la via “obliqua”dell’estetica più che l’interesse per il discorso religioso.
È certo che senza questo sfondo Eco difficilmente avrebbe scelto San Tommaso come tema del suo studio. (Una scelta, peraltro, rivoluzionaria all’epoca: Jacques Maritain, uno dei suoi autori di allora, era anche il maestro di tutto il cattolicesimo di sinistra del tempo). È interessante leggere qui la premessa alla riedizione, nel 1970, del libro del 1956: nel 1952 Eco aveva cominciato la tesi «in uno spirito di adesione all’universo religioso di Tommaso d’Aquino» e si ritrovava nel 1970 ad aver «regolato i conti da gran tempo con la metafisica tomista e la prospettiva religiosa». Ma curiosamente questo regolamento di conti era avvenuto proprio attraverso l’indagine su Tommaso. Anche nei decenni successivi, la vicinanza di Eco con il suo maestro rimarrà confinata al territorio dell’estetica, mentre Pareyson elaborerà – anche lui in qualche modo partendo da questo territorio originario – la sua religiosissima ontologia della libertà.
Il primo Eco sarebbe dunque un giovane cattolico tomista e il secondo un pensatore laico che ha ormai regolato i suoi conti? Il fatto è che forse la stessa scelta di studiare San Tommaso era già abbondantemente “laica”; nemmeno nel primo Eco ci sono testi intensamente intrisi di religiosità. Anche l’entusiasmo per il Medio Evo, la sua cultura figurativa, il suo modo di vivere intensamente il mondo, era in fondo l’ammirazione per una grande cultura che si poteva incontrare non solo in Tommaso o in Dante, ma anche in Rabelais, non a caso così spesso citato negli scritti qui raccolti. È davvero lo studio di San Tommaso che ha aiutato Eco a chiudere i suoi conti di cui sopra. E per quanto paradossale, la traccia di San Tommaso resta viva in tutto il suo lavoro anche degli anni più recenti.
Accade a Eco quello che egli acutamente legge in Joyce: il bellissimo saggio joyciano del 1962 , qui pubblicato sotto il titolo “Ritratto del tomista da giovane” porta come epigrafe un’espressione di Joyce: “Seeled in the school of the old Aquinas”, rinserrato nella scuola del vecchio Aquinate. Scritto ben prima del 1970, il primo capitolo di questo saggio si apre con la confessione di Stephen Dedalus a Cranly: «Ti voglio dire quello che farò e quello che non farò. Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la chiesa; tenterò di esprimere me stesso in qualche modo di vita o di arte, quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia». Chi parla è il giovane Stephen – Joyce stesso – educato dai gesuiti, che pur rifiutando ormai la sostanza dogmatica del cattolicesimo, ne conserva la forma mentis essenzialmente medievale, un’idea di razionalità complessiva che, paradossalmente (nel caso di Joyce), gli permette l’apertura illimitata alle più audaci avventure del pensiero e del linguaggio (“Finnegans Wake”!) senza lasciarlo mai cadere nel rischio della dissoluzione di ogni forma.
Non saprei se questo sia vero di Joyce, certo a me sembra vero di Eco. Insieme al saggio su Joyce “tomista”, l’altro testo incluso nel nostro volume che suggerisco di tenere come filo conduttore per l’esplorazione di questo “Eco 1 e 2″ è il saggio (anche questo rielaborazione di uno scritto precedente, del 1981) “Dall’albero di Porfirio al labirinto enciclopedico”, che è una vasta escursione sul rapporto tra dizionario ed enciclopedia, quest’ultima emblematizzata dal labirinto, secondo un’immagine che Eco riprende da Rabelais, ma che è diventata corrente in tutta la cultura moderna. Il giovane tomista – Joyce o Eco – si trasforma, regola i suoi conti, passando dall’amore per il dizionario e l’albero di Porfirio, modellato sullo schema aristotelico di genere prossimo e differenza specifica, all’esperienza abissale dell’enciclopedia, non dimenticando mai, però, le proprie convinzioni originarie.
E, nel caso di Eco, non diventa mai un post-moderno. O un pensatore debole (sebbene per un’imprudenza dovuta all’amicizia, accetti di pubblicare un suo “Antiporifirio” nel volume “Il pensiero debole” di Rovatti e Vattimo del 1983), nonostante che sia l’itinerario joyciano sia le avventure enciclopediche – dalla tv al giornalismo alle vere e proprie imprese che sono le sue Summae (cartacee o elettroniche) degli ultimi anni, dove l’amore per la sistemazione dei saperi (le liste!) resiste a stento alla curiosità di tipo borgesiano per le tante stranezze di cui lui stesso dà ampi esempi nell’escursione citata – lo predisponessero, e quasi lo predestinassero alle più rischiose perdite del centro. A quella vicenda insomma in cui, come scrive il nichilista Nietzsche, «l’uomo rotola via dal centro verso la X».
Ecco, se Eco non è mai diventato nietzschiano o heideggeriano o post-moderno è perché è rimasto tomista, non nella sostanza ma nell’impianto fondamentalmente razionalistico del suo pensiero. Come se lo caratterizzasse, già prima di arrivare agli ottanta anni di oggi, una specie di saggezza di fondo, che curiosamente ma non troppo lo accomuna a un altro (mio) maestro novecentesco (ahimè inviso ai “realisti” di oggi), Hans Georg Gadamer, fondatore dell’ermeneutica e spirito enciclopedico e pedagogico così affine a quello di Eco, come lui interessato più ai saperi sulle cose che alle cosa stesse. Anche l’ermeneutica potrebbe contare Eco tra i propri esponenti, come il post-modernismo. Se non ci fosse di mezzo la “school of the old Aquinas”. Ma i conti non sono ancora davvero chiusi.
l’Espresso – Cultura
Il medioevo era nel suo cuore e non a caso la produzione di Umberto Eco al riguardo spaziò in lungo e in largo: saggi di estetica medievale, linguistica e filosofia, ma è con il romanzo Il nome della Rosa, edito da Bompiani, che Eco si impose al grande pubblico. Il romanzo, pubblicato nel 1980, lo rese famoso oltre i confini nazionali con ben 14 milioni di copie vendute e traduzioni in oltre cento lingue. A rendere ancora più forte l’impatto di Eco sul pubblico arrivò nel 1986 una (libera…) trasposizione cinematografica, vincitrice di 4 David di Donatello nel 1987, per la regia di Jean-Jacques Annaud, con Sean Connery nei panni di Guglielmo e Christian Slater nel ruolo di Adso.
Nella sua produzione narrativa, il secondo lavoro fu del 1988 quando pubblicò “Il Pendolo di Foucault” sempre per Bompiani e poi a seguire L’isola del giorno prima nel 1994, Baudolino nel 2000, La misteriosa fiamma della regina Loana – Romanzo illustrato nel 2004, Il cimitero di Praga nel 2010 e Numero zero nel 2015, dove protagonista è la redazione di un giornale alle prese con fatti “all’italiana”, tra complotti e riferimenti alla vita più travagliata della recente cronaca di questi anni nel paese. L’ultima fatica narrativa uscirà però postuma con il titolo Pape Satan Aleppe, come da dichiarazioni di Elisabetta Sgarbi a fianco della quale e di altre importanti firme artistiche uscite da Bompiani post-fusione Eco aveva creato la nuova casa editrice “La Nave di Teseo“.
Il capitano e la Nave
Il nuovo gigante post-fusione mondadori-Rcs stava paradossalmente stretto ad un uomo come Eco. Assieme a Sandro Veronesi, Hanif Kureishi, Tahar Ben Jelloun ed altri lasciò il nuovo colosso (per l’Italia..,) editoriale Mondadori-Rcs, e quindi Bompiani, per seguire Elisabetta Sgarbi nella nuova avventura della casa Editrice “La Nave di Teseo”. Proprio dalla pagina Facebook il titolo di capitano, oltre che amico e compagno di avventure, è quello che titola i post che ricordano l’uomo e il pensatore. [https://www.facebook.com/1526763260976787/videos/1569789496674163/]
Ci uniamo al dolore per la perdita, sapendo di non poter aggiungere nulla di quanto già scritto in queste ore e non solo in queste ore. Certo una figura che o la si amava o la si odiava, difficilmente in zona grigia dei gusti della massa ma anche delle varie élite socio-culturali nonché politiche.
Per avversari o amici ad ogni modo la sua opera ha lasciato un’impronta indelebile non solo di fama e popolarità ma indubbiamente impronta scientifica e, non ultima, umana. Un uomo di frontiera, cresciuto nella tradizione di famiglia “qualsiasi” ma da subito impegnato e dialetticamente attivo, onesto culturalmente al punto di non tirare mai via la gamba la penna e il cervello e, soprattutto, il cuore nelle cose e per le cose in cui si impegnava e credeva.