Ponti di odio. Muri di conoscenza.

Muro

Di etimo ritenuto per lo più sconosciuto, l’italiano lo continua, nel corso di tutta la sua storia e con pesi diversi nelle sue varietà, dal latino, facendone la base per derivati quali “murale”, “muraglia”, “murazzo”, “muriccio”, “muratore”, e, più recentemente, “murales”.

Ne fa inoltre il perno su cui incentrare locuzioni di ampia diffusione quali:

  • muro di odio
  • muro di omertà
  • muro di indifferenza
  • muro di silenzio

 

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Il suo significato è antinomico (contrario e contraddittorio, nei termini della classificazione semantica, un po’ come accade per “vita” e “morte”) a quello di “ponte”, da una radice indoeuropea dal significato di sentiero, termine a sua volta impiegato per formare locuzioni di uso comune quali

  • ponte/i di amore
  • ponte/i di pace
  • ponte/i di libertà
  • ponte/i di solidarietà

 

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La natura contraria e contraddittoria, poco incline dunque alla mediazione, del significato di questi due termini, e la loro collocazione in spazi di conoscenza opposti, trova perciò un riscontro fattuale nel reale: quello stesso reale che ha fatto da punto di partenza per la formazione delle locuzioni stesse che, nella comunicazione contemporanea di vario ambito, vengono riproposte con una frequenza tale da far rischiare, soprattutto alle due più usate perché in qualche modo rappresentative anche delle altre (“ponti di pace” e “muri di odio”), di diventare parole di plastica, ovvero pezzi di lingua a serio rischio di svuotamento di significato e di declassificazione a riempitivo di scarso valore (cfr. l’uso di “emergenza” o di “catastrofe” da parte dei media).

Rispetto a questo stato di cose qui, però, si vuole proporre una lettura diversa: una lettura in cui, per un finto gioco delle parti, i ponti si fanno muri.

Anzi, in cui il ponte per eccellenza si fa muro

Il ponte per eccellenza è costituito dalla corteccia cerebrale, organo di civilizzazione (Vygotskij) in grado di fornire, alla specie cui apparteniamo, soluzioni a ogni nuova esigenza posta dalla storia.

Organo di mediazione, giacché consente a ciò che esterno di transitare in noi e farsi conoscenza, la corteccia cerebrale va immaginata come un qualcosa che somiglia a ciò che nella nostra esperienza quotidiana appare essere duttile e in perenne rimodellamento.

Questo rimodellamento avviene per effetto degli stimoli esterni, non subiti passivamente da ciascuna persona ma continuamente reinterpretati anche alla luce della pregressa esperienza del mondo.

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Ma è su questa esperienza che mi voglio soffermare, giacché potremmo erroneamente essere portati a pensare, quando si parla di esperienza, che la lingua abbia solo marginalmente a che fare con essa.

Così non è.

Comportamento agìto dal valore sociale altissimo, la lingua, o, meglio, le porzioni di testo che la lingua sostanzia, hanno per la nostra specie lo stesso peso dell’azione motoria o espressa in qualsiasi altro modo.

Insomma, che l’esperienza sia stata vissuta direttamente o vissuta attraverso la narrazione, poco importa.

Proprio in quanto ponte, la corteccia contribuisce, con varie sue parti e con altre parti del cervello, a rendere la narrazione fatta da altri esperienza personale. Esattamente come accade con le scene a cui assistiamo attraverso l’apparato visivo e gli altri apparati sensoriali.
Che della realtà si abbia una esperienza diretta e fattiva oppure narrata, dal punto di vista dell’esito del processo – la conoscenza e il suo collocamento in uno spazio mentale in cui è necessario che viga il principio di coerenza – non cambia perciò poi molto.

Cosa può accadere, allora, sulla base di queste premesse e dell’esperienza social quotidiana, quando la conoscenza del mondo o di una sua parte è determinata da narrazioni prive di coerenza, a volte totalmente prive di riscontro per non dire palesemente false?Narrazioni pensate per rispondere a bisogni individuali e collettivi per i quali si è progettati e che pertanto sono difficili da filtrare perché connesse con emozioni profonde quali la paura o il bisogno di proteggere se stessi o chi si ama?

Le narrazioni, per dirla diversamente, possono diventare un vero e proprio cavallo di Troia, nei confronti del quale è difficile, se non impossibile, innalzare muri di protezione.

Perché, proprio come è accaduto a Troia, al termine di una sfiancante guerra che senza l’espediente del cavallo sarebbe durata ancora a lungo, il cavallo è fatto penetrare nella città dagli stessi abitanti, quei guerrieri che, pensando a un dono degli dei, hanno abbassato il ponte (levatoio) per consentirgli di accedere.

Se il cavallo sono le narrazioni, allora i loro contenuti sono i guerrieri greci, abilmente nascosti nella sua pancia, sistemati con le loro armi in modo funzionale per portare l’assalto a Troia al calare delle tenebre.

Uno scenario, questo, da tenere ben a mente nella propria vita sociale e social, con la seconda troppo spesso per ingenuità ritenuta meno pericolosa della prima.

Per questa ragione, si è ritenuto che potesse essere di qualche utilità accostarsi all’attualità adottando una prospettiva in grado di tener conto del ridisegnamento dello spazio comunicativo ad opera della rete e dei social media, che nelle narrazioni hanno trovato, come non mai, il proprio cavallo di Troia.

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Versione video di questo contenuto (dall’Aula di Lettere del sito dell’editore Zanichelli)

 

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