Gaetano Scirea in Nazionale

Ricordando un grande uomo nell’anniversario della sua prematura scomparsa: Gaetano Scirea

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Gaetano Scirea alla Juventus

Gaetano Scirea non è stato solo uno straordinario campione calcistico ma ha rappresentato e rappresenta ancora l’esempio di umanità immensa che manca sempre di più in un calcio che è circo nei modi e industria nei numeri.
Il 3 settembre 1989, Gaetano Scirea moriva in Polonia a Babsk,  a seguito di un incidente d’auto. Era nato a Cernusco sul Naviglio il 25 maggio 1953, proveniente da una famiglia di emigrati siciliani. Il padre era operaio alla Pirelli ma a sua volta modello di riferimento di valori per il futuro campione di casa.

La notizia della sua prematura morte, ad appena 36 anni, arrivò dalla bocca di un altro grande, Sandro Ciotti, durante la puntata della Domenica Sportiva e fu come un calcio sui denti, un’entrata da cartellino da rosso diretto, l’esatto opposto di come lui aveva interpretato un ruolo e una passione prima che professione. Mai una espulsione, mai un atteggiamento fuori luogo, mai un protagonismo che non fosse il “semplice” fare il proprio – immenso – ruolo per la sua squadra (Atalanta prima, e poi i trionfi e i tanti anni in Juventus e nazionale): essere un riferimento senza esibire galloni e senza mai soverchiare le regole e, ancor prima, il rispetto verso gli avversari.
Patrimonio della Juventus è, però, patrimonio di tutto il calcio italiano, per quella straordinaria cosa che è il poter condividere anche se da colori o con colori diversi quando il valore si chiama uomo e sua umanità.

Gaetano Scirea, all'Atalanta
Gaetano Scirea all’Atalanta

Con i se e con i ma non si potrà fare la storia ma si possono indicare modelli che sono a portata di tutti, nella misura in cui la straordinarietà di Gaetano Scirea è accessibile: serve solo l’impegno a non perdersi nel circo industriale del calcio.
Gaetano – per dirla con certe terminologie di oggi – era brand di per sé, senza necessità di tagli di capelli o sfoggi, senza esibizionismi, senza nulla di più che non fosse lui stesso.
Tornò e completò i suoi studi superiori nel 1987, appena cessata l’attività di giocatore, a dimostrazione che non aveva mai smesso di investire in sé prima che in abiti su di sé o altri status da possedere.

Gaetano Scirea era uomo nobile, profondo: “era” prima ancora di “avere”.

Lo vogliamo ricordare con penna assai migliore della nostra, con le parole di Gianni Mura su http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/09/05/scirea-la-faccia-pulita.html

SCIREA, LA FACCIA PULITA

CON Gaetano Scirea se n’ è andata una delle facce più pulite del nostro calcio. Giovanni Arpino l’ aveva paragonato a Garrone, ma forse era più facile essere Garrone in un’ aula scolastica dell’ Italia di allora che in una squadra di calcio dell’ Italia di questi ultimi anni. Scirea è stato un campione di rara signorilità: un dono, un’ educazione, una vocazione forse. Era come stesse in disparte anche quando era al centro dell’ attenzione. Ora che è morto in quel brutto modo (ma ci sono bei modi di morire?), ora sentiamo un dolore vivo e forte, come per un amico, un parente, e pensiamo che la vita è cattiva, ingiusta la sorte, tutte cose vecchie che sapevamo già da un pezzo. Ma perché doveva toccare proprio a Scirea? Non meritava di finire bruciato su una strada polacca, ma di continuare a lavorare, di diventare vecchio insieme alla moglie, al figlio, di fare le cose in cui credeva. Poche. Ma chiare, come lui. Era un campione, lo sanno tutti, ci sono i numeri a dirlo, c’ è la stima di tanta gente che ha giocato con lui e contro di lui. Giocarci contro era capire cos’ è la lealtà. Mai un’ espulsione, in tanti anni, e per un difensore non è così facile il percorso netto, anche quando non è un picchiatore. E’ troppo buono dicevano di lui agli inizi. Oppure non è abbastanza cattivo, più o meno lo stesso concetto. Sbagliato, o meglio smentito da Scirea. Adesso ci accorgiamo di come fosse lo stesso uomo, in campo e fuori, e non è un caso che lui e Zoff, e le loro mogli, fossero così in amicizia. In molti campioni c’ è una vena di diversità, una sorta di sdoppiamento agonistico, un qualcosa che li segna e li caratterizza, li sottolinea, li fa ricordare. Scirea no. Una carriera da uomo tranquillo e sereno, riguardoso degli altri ma attento alla sua strada. Diceva di suo padre, operaio per 38 anni alla Pirelli: Mi ha insegnato il valore del sacrificio. Pochi soldi, ma la dignità per essere felici. Mai un attrito con la stampa, anzi anche da capitano della Juve e della Nazionale gli era rimasta l’ abitudine di chiudere le interviste con un grazie buttato lì con discrezione. Non che avesse bisogno dei giornali, ma quand’ era ragazzino all’ Atalanta gli avevano detto che un pezzo su un giornale serve sempre, foss’ anche un taglio basso a due colonne. C’ era qualcuno, a casa, che quell’ articolo ritagliava e conservava incollandolo su un album a quadretti. Era nato a Cernusco, abitava a Cinisello. In casa, come in tutte le case degli operai, ci tenevano al pezzo di carta. Lui aveva interrotto le magistrali passando alla Juve e poi era diventato un campione, ma la promessa del pezzo di carta non l’ aveva dimenticata: si è diplomato nell’ estate dell’ 87, ecco la foto, in mezzo a dei ragazzini, un bel sorriso sulla faccia che sembrava aggrappata al naso. Da ragazzino lui sognava Suarez e Rivera, la maglia numero 10, la direzione d’ orchestra. Ci è arrivato ugualmente, con la maglia numero 6: direzione della difesa e appoggio al centrocampo e all’ attacco. Era uno nato per costruire: calcio, visto che faceva il calciatore, e costruiva calcio in un ruolo appartenuto ai distruttori. O altro: avesse fatto il maestro, avrebbe insegnato ai bambini meno fortunati, più deboli. Aveva sposato un’ assistente sociale, di Morsasco, nell’ Acquese, e il loro bambino, Riccardo, aveva vissuto a lungo coi nonni, prima di andare a scuola. Le città non sono fatte per i bambini diceva Scirea mentre in campagna si divertono di più e imparano più cose. Altre cose gli insegnava lui. Come quella volta a Bergamo che Riccardo si mise a piangere perché il papà non giocava titolare per scelta tecnica: Gli ho detto che sto diventando vecchio e non c’ è niente di cui vergognarsi se gioca uno più giovane. Aveva la capacità di rendere semplice tutto, Scirea, pur non essendo un gran parlatore. Diceva la sua, anche in spogliatoio, senza mai alzare la voce, e quando parlava lui lo stavano ad ascoltare, sapendo che parlava solo quando aveva qualcosa da dire. Mai una polemica, uno sgarbo per una sostituzione, per una chiamata in panchina. Mi rendo conto che può sembrare la descrizione di un santo, invece Scirea era un uomo vero e proprio questa sua umanità accentua lo strazio della scomparsa. Era un protagonista in punta di piedi. Ogni tanto mi faceva pensare, fuori campo, al fidanzatino di Peynet, ma era un’ impressione dettata più dal riserbo che dalla timidezza. Perché poi ti accorgevi che la sua autorevolezza non aveva bisogno di strilli o pugni sul tavolo, né il suo modo di intendere il calcio richiedeva svolazzi e tamburi, e pure il suo senso della posizione, oltre al buon senso, gli vietava interventi spaccagambe o altamente spettacolari. In campo era sempre dove serviva che fosse. E anche fuori. A Scirea, studente a Coverciano, un collega aveva chiesto qualche mese fa un’ occhiata sul futuro. Mi basta continuare a essere quello che sono e chiedo solo un po’ di salute. Tutto questo non ha più senso, solo il dolore ha un senso. Tutti noi, che abbiamo frequentato Scirea per lavoro, l’ abbiamo amato e rispettato, il contrario era impensabile. Domani ci sarà, sui campi, un minuto di silenzio per ricordarlo. Un minuto è poco, ma vorrei che fosse davvero di silenzio. Senza applausi, senza cori: a lui non sarebbe piaciuto, Gaetano non era di quelli che battono le mani ai morti. Avrebbe abbassato la testa, come si usa nei paesi, ancora, e avrebbe pianto. E solo questo per lui possiamo fare, ed è poco, nulla per la sua vita così bella e chiara, per la sua morte così brutta e assurda.

di GIANNI MURA

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