Si dice che… Métis (prima parte)

La Métis è una forma d’intelligenza che implica un sistema complesso d’atteggiamenti mentali e comportamenti intellettuali che combinano intuito, sagacia, previsione, spigliatezza mentale, finzione, capacità di trarsi d’impaccio, attenzione vigile, senso dell’opportunità, abilità in vari campi. Una forma d’esperienza che s’acquisisce solo dopo molti anni e che s’applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano certo alla misura precisa, né al calcolo esatto, né al ragionamento rigoroso.
Due studiosi francesi, Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, trattando della Métis, fanno più volte riferimento a professioni come quella del medico, del navigante, dell’artigiano: dovendosi applicare a realtà mobili e sfuggenti, tutte queste hanno a che fare con una conoscenza congetturale e necessitano di colpo d’occhio, di finezza di spirito, di mobile acutezza.
Il lavoro condotto dai due studiosi francesi ci consente d’affermare che, per frequentare le fluidità e le penombre dell’animo umano, bisogna aver coltivato e ben sviluppato una forma d’intelligenza “mética”, un sapere, cioè, che ha ben poco a che vedere con le certezze scientifiche.
Mai dimenticare che la rigidità di teorie e metodi forti (il termine “metodo” contiene la parola “odos”: “il cammino”, “la via chiaramente tracciata”) è profondamente inadatta ad avvicinarsi all’inesatto, all’obliquo, al cangiante, all’irripetibile, propri dello spirito umano nonché di quel che con quest’ultimo deve far i conti quotidianamente.
Come già diceva Gerd Achenbach, il pensiero filosofico non si muove su corsie prefabbricate ma cerca, di volta in volta, la strada giusta ed ogni volta una strada nuova. È del tutto evidente che, per sostener questa scomodissima posizione, occorre un’intelligenza fluttuante, frutto d’esperienza e priva d’arroganza conoscitiva: la Métis dei Greci, in fondo, non era altro che questo. Come forma d’intelligenza particolarmente vicina all’efficacia pratica, tuttavia, essa è stata quasi del tutto trascurata dagli studiosi moderni sia in relazione al proprio ruolo sia al proprio impatto e persino alla propria esistenza. S’è preferito, insomma, restar fedeli ad una certa immagine che il pensiero greco ha dato di se stesso, nel quale la Métis è stranamente assente. Ecco perché, nel quadro del pensiero e del sapere tracciato dai filosofi, tutte le qualità dello spirito di cui è composta la Métis, i suoi colpi di mano, le sue abilità, i suoi stratagemmi, sono spesso respinti nell’ombra, cancellati dal campo dell’autentica conoscenza e ricondotti, secondo i casi, al livello della pratica, dell’ispirazione audace, dell’opinione incostante, o della pura e semplice ciarlataneria. Sarà il caso, invece, di tornar ad indagare su tale “intelligenza”.

“La Métis è “la capacità d’aderire solidamente alla realtà in maniera complice, camaleontica, ambigua, duttile. Quella forza illusionistica, quell’astuzia e plasticità consentono la vittoria proprio laddove nessuna soluzione o scioglimento si farebbe strada nell’intelletto comune…” (Corrado Bologna)

Il labirinto, classico esempio di “situazione difficile da cui uscire”, è il modello, sempre uguale e sempre diverso, d’un qualcosa che in fondo abitiamo da sempre (come sostiene Umberto Eco). La dea Meti (da cui deriverà il nome Métis), la prima sposa di Zeus, è la personificazione della saggezza nonché dell’astuzia, e la Métis, a propria volta, non è altro che la “capacità di uscir dal labirinto”, come dire da un problema o da una difficoltà: non s’apprende se non praticandola. La Métis presiede tutte le attività in cui la persona deve apprendere a superare forze ostili, che paiono troppo potenti per esser controllate direttamente.

                                                   La dea Métis
                                                                    La dea Métis

Il nostro aiuto deve consistere proprio in questo: nel far ritrovare la Métis, e quindi la capacità, la forza e la voglia di superar ed accettare tutto ciò che, in fondo, insuperabile ed inaccettabile non è mai. La Métis, d’altra parte, è l’esatto contrario del pensiero metodico: non s’apprende, infatti, se non praticandola. L’imprevedibilità ed il polimorfismo, la flessibilità e l’adattamento, l’adeguamento alla situazione sono, forse, quel che caratterizza al meglio la Métis (e che ne descrive l’indescrivibilità se non per casi particolari). La Métis accomuna il polpo e la volpe, e presiede tutte le attività in cui l’uomo deve apprendere a far fronte a forze ostili, troppo potenti per esser messe del tutto sotto la propria disponibilità ma che si possono comunque usare, loro malgrado, senza affrontarle apertamente. Esercitata in situazioni incerte ed ambigue è la capacità di sfruttare l’occasione, di portare a compimento le potenzialità del contesto. Consiste in pensieri rapidi e non riflettuti, ma densi e frutto dell’esperienza passata. Non lascia niente al caso ed è la capacità di rendere favorevole il caso stesso. E’, insomma, il pensiero del trucco e della trappola, del camouflage e del mascheramento. Oltre ad avvicinarci ad un certo modo di pensare “cinese”, la Métis ci riporta alle avventure di Dedalo nella Grecia antica, come dire, insomma, proprio all’inizio del nostro percorso. Del resto, ogni ricerca sul labirinto non può che esser a propria volta… labirintica.
Molti dei pensieri qui contenuti li ho tratti “leggendo e copiando” pensieri altrui: mi spiace e mi scuso con gli autori degli stessi per non aver quasi mai tenuto conto negli anni del loro nome (se non, forse, in ordine sparso: Cirillo, Donati, Treleani…). D’altronde, e come ben insegna il personaggio di “A Bautiful Mind”, sono proprio i labirinti della mente quelli più difficili da superare e con tutta evidenza nel caso noi non s’è riusciti nell’impresa. Che un giorno, saremmo “dovuti” giunger tutti alla Métis è quel che, in fondo, noi dell’Accademia s’era sempre saputo, ma da dove noi s’è partiti non lo ricordiamo più. D’altronde, è la stessa Métis che c’impone di rinunciare ad un metodo forte, che ci chiede brevi aforismi e non più ampi pensieri.
Nelle prossime pagine leggerete un mio brano del gennaio 2013: chi ancor non lo sa, potrà così accostarsi a Prometeo e scoprire il motivo per cui Zeus lo mise in catene sul Caucaso. Quel brano, col tempo, divenne in realtà un “manifesto per gli anni a venire dei mercati finanziari”. Allora tentai di scriverlo con metodo ma oggi non potrei: non è più detto, infatti, che il “metodo” possa sempre aiutarci. Ormai!

“Fu già un tempo che gli dei erano ma le stirpi mortali non erano. Poiché però anche per queste giunse il momento predestinato al loro nascere, gl’iddii le plasmarono, nel seno della terra, di terra e di fuoco, mescolandovi eziandio quegli elementi che con terra e fuoco si contemperano (“acqua” e “aria”, N.d.R.); e quando furon sul punto di condurle alla luce, vollero che Prometeo ed Epimeteo distribuissero ordinatamente le facoltà convenienti a ciascuna. Senonché Epimeteo sollecita Prometeo di poter fare lui una siffatta distribuzione; “Quando avrò”, dice, “distribuito, tu esaminerai”. E così, persuasolo, distribuisce…”

Prometeo
Prometeo torturato dall’aquila

Comincia con queste parole la descrizione che Platone fa nel Protagora de “la venuta alla luce da parte dell’Uomo”. Che per quest’ultimo, tuttavia, le cose non sarebbero andate granché bene, era facile immaginarlo. Epimeteo, infatti, il Titano che s’era voluto far carico di distribuir “le facoltà convenienti a tutte le stirpi mortali”, già nell’etimologia del proprio nome conduceva all’inevitabile inciampo:
“Epi-métis” , “colui che ha il senno di poi”… colui, insomma, “che pensa dopo”.

Ed infatti, è solo dopo aver fornito ad ogni stirpe mortale i mezzi necessari alla propria conservazione che Epimeteo s’accorge di non aver più nulla da dar all’Uomo per garantirgli la necessaria sopravvivenza. Suo fratello, Prometeo, “colui che pensa prima”, accortosi che l’Uomo (nudo, scalzo, scoperto ed inerme) era del tutto privo di qualità (nonostante fosse ormai prossimo il giorno in cui anch’egli sarebbe venuto alla luce insieme alle altre creature mortali), decide di rubare ad Efesto quel fuoco di cui questi era dio, e ad Atena, dea della saggezza, la sua sapienza tecnica: perché l’uno (il fuoco) senza l’altra (la sapienza tecnica), in effetti, non sarebbero serviti un granché. Ed è proprio l’uno e l’altra che Prometeo dona infine all’Uomo: ch’egli possa disporre delle necessarie risorse per la propria vita!
Per il furto compiuto, tuttavia, Prometeo ebbe poi a pagar la propria pena (così come voluto da Zeus): in catene, sul Caucaso, con un’aquila reale che ne rode di continuo il fegato… e quest’ultimo che non smette mai di ricrescere (a darci, però, conto di quel che lì avvenne non fu Platone ma Eschilo, nella tragedia del “Prometeo incatenato”).

Sulla base di quant’affermato da Platone, l’Uomo non sarebbe quindi al vertice della scala animale (come gli uomini, invece, vorrebbero credere) ma all’ultimo dei suoi gradini: privo d’ogni qualità naturale, infatti, fu solo grazie alla tecnica che egli riuscì a sopravanzar le altre stirpi mortali. E la tecnica non sarebbe frutto della sua razionalità, perché più probabile parrebbe invece il contrario: la ragione quale frutto della tecnica! E sarà proprio lungo tale solco che Nietzsche, sottolineandone la grave carenza di corredati propriamente naturali, potrà giungere ad affermare che “l’uomo è il solo animale non ancor stabilizzato!” (…alla continua ricerca di stabilità, aggiungiamo noi).

 

Kos Geranós

Kos Geranós

 

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