Tesori d’Italia: la Sacra di San Michele

Fondata dall’aristocratico Ugo di Montboissier all’imbocco della Val di Susa, è un imponente complesso di architettura religiosa frutto di stratificazione di secoli e stili. Per secoli punto di riferimento per il corpo e l’anima dei pellegrini che percorrevano la Via Francigena, la Sacra di San Michele è dal 1994 il monumento simbolo della Regione Piemonte.

“La Regione riconosce la Sacra di San Michele quale monumento simbolo del Piemonte, per la sua storia secolare, per la testimonianza di spiritualità, di ardimento, di arte, di cultura e l’ammirevole sintesi delle più peculiari caratteristiche che può offrire del Piemonte, nonché per la sua eccezionale collocazione e visibilità”

Legge Regionale n. 64 del 21/12/1994

Tesori d'Italia: la Sacra di San Michele
La Sacra di San Michele

L’ambito geografico della Sacra di San Michele

La Sacra di San Michele sorge all’imbocco della Val di Susa sul monte Pirchiriano, promontorio appartenente alle Alpi Cozie e sede di una delle più battute vie storiche di collegamento tra Francia e Italia. Gli insediamenti umani affondano nella notte dei tempi e più volte l’area è stata terreno di incontro come di scontro, in un intervallarsi di esploratori, mercanti, eserciti con relativi condottieri (tra i quali Annibale a Carlo Magno) ma anche di pellegrini.  Proprio la vocazione a percorso elettivo, se non necessario, di fede e di pellegrinaggio fra Francia e Italia l’ha resa nota come Via Francigena.

Tralasciando quanto di epoca pre-romana e romana, il contesto germinale e di primo sviluppo della Sacra di San Michele è nell’Alto Medioevo (convenzionalmente quella parte del Medioevo che va dal 476 d. C., anno della caduta dell’Impero romano d’Occidente, all’anno 1000 circa o 1066).

Si pensa che il forte rilievo strategico rispetto al territorio abbia reso la zona un naturale baluardo orografico su cui sviluppare un presidio militare per il controllo dei passaggi, il tutto non senza la commistione con il religioso: questo primo “ibrido” di destinazione (militare – religioso) è riferibile in maniera particolare ai Longobardi tra il V e il VI secolo d.C. La ragione di questa convergenza e condivisione di spazi tra sfera militare e sfera religiosa non rispondeva a logiche o strategie precise ma era conseguenza dell’asperità, dell’altezza, della assai difficoltosa accessibilità di questi luoghi che offrivano da un lato buona valenza difensiva di presidio anche per numero ridotto di militari e d’altro  un ambiente ideale all’eremitaggio e alla contemplazione per i religiosi. Il momento storico vedeva impegnati su fronti avversi i Franchi, la cui pressione prendeva consistenza, e i Longobardi, che miravano al contenimento dei Franchi tramite un sistema più o meno articolato costituito dalle chiuse. Lungi dall’essere state un sistema complesso e centrale nelle strategie difensive longobarde come invece una parte della tradizione storica le ha tramandante, in realtà le chiuse dei Longobardi erano una struttura difensiva probabilmente a basso intervento d’architettura militare o, comunque, a basso contenuto antropico e che era approntata soprattutto sfruttando la naturale conformazione delle vallate alpine: dal nome di chiusa deriva probabilmente il nome del sottostante paese di Chiusa San Michele.

Nella terra di mezzo tra militare e spirituale, nella sfera che unisce il tangibile estremo delle rocce montane all’immaterialità più profonda della fede, il contesto in cui sorse la Sacra di San Michele ospitava più o meno inconsapevolmente tutta la ricchezza del patrimonio che avrebbe preso corpo nella Sacra medesima.

Il culto micaelico

Angelo, messaggero, comandante delle schiere celesti, vincitore su Satana ma anche taumaturgo, psicagogo (accompagnatore delle anime) e psicopompo (pesatore delle anime): tanti sono gli epiteti che la tradizione e il culto hanno attribuito a San Michele Arcangelo, ponendolo come oggetto di devozione primario della cristianità e come soggetto elettivo nella rappresentazione artistica religiosa. Potremmo individuare per semplicità due filoni principali che sono confluiti nel suo culto: da un lato un filone più generale con il suo essere angelo, messaggero con le sue apparizioni, figura venerata di mediazione tra Dio e gli uomini che è presente in molte antiche tradizioni religiose non cristiane risalenti assai indietro nel tempo, dall’altro uno più specifico, che ne permette l’enucleazione rispetto al filone più generale, che lo identifica per il suo fare agire in qualità di capo delle milizie celesti vincenti su Lucifero o Satana ma anche, appunto, guaritore per mezzo di acqua miracolosa e accompagnatore e giudice delle anime al loro arrivo dinanzi a Dio.
Rimandiamo ad un prossimo nostro articolo un’analisi più ampia del culto di San Michele Arcangelo.
Quel che qua preme ora sottolineare è lo sviluppo del culto in Italia e il percorso che conduce alle ragioni dell’edificazione della Sacra a lui consacrata.
Proveniente dalla sponda orientale del mediterraneo, in particolare dall’Asia Minore ed Egitto, il suo culto approda in Italia tra il IV e il V secolo soprattutto nei territori più sensibili all’influenza bizantina e sul Gargano trova il suo centro di diffusione principale. Non a caso, tra le altre cose, il promontorio garganico ben dispone di alture con grotte che richiamano il tessuto orografico d’installazione dei principali centri micaelici nei luoghi d’origine.  Si parla infatti, e ben lo evidenzierà anche la scelta del luogo su cui edificare la Sacra di San Michele, di culto aereo, ossia quella tipologia di culto che ricercava sommità in quanto più a favore del cielo rispetto al circondario e che ben si prestavano, nella concezione del tempo, all’incontro con i messaggeri divini.
Il Gargano si dimostra centro straordinariamente fertile per lo sviluppo del culto, grazie al santuario costituito inizialmente da una grotta naturale dove tra il 490 e il 493 d. C. apparve tre volte l’Arcangelo San Michele a Lorenzo Maiorano santo vescovo di Siponto. Tale ne fu la portata che il culto micaelico sul Gargano assunse una sua specifica caratterizzazione, figlia tra l’altro dell’incontro e della dialettica con la cultura popolare locale e con la sopraggiunta cultura longobarda.
A partire dal VI-VII secolo, grazie alla particolare devozione che l’Arcangelo San Michele ebbe da parte dei Longobardi oltre che per l’opera dei mercanti e pellegrini, il culto micaelico gradualmente percorse le principali direttrici dell’epoca e si diffuse in altre regioni dell’Italia fino all’Europa, in Germania, Francia, Spagna, Inghilterra, Belgio e Paesi Bassi.
Siamo ormai a ridosso dell’anno Mille, il momento in cui la Sacra di San Michele ha origine e prende forma.

Storia della Sacra di San Michele

Il complesso nasce in stretto collegamento con il succitato santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo, sul promontorio del Gargano, e con il santuario di Mont-San-Michael au pèril de la mer in Normandia. Tutti e tre si trovano arrampicati su picchi di roccia, più vicini al cielo che alla terra, perfetta scenografia per il culto aereo e una tradizione popolare vuole che l’Arcangelo San Michele, protettore della cristiana Europa, poggi i piedi in Val di Susa, ed estenda le sue ali fino a raggiungere gli altri due luoghi di culto.

L’elemento peculiare della Sacra di San Michele è la sua posizione alla sommità del monte Pirchiriano, uno sperone roccioso appartenente al gruppo del Rocciavré nelle Alpi Cozie (alt. 962 metri s.l.m.). Pirchiriano è il nome antichissimo del monte, forma elegante di Porcarianus o monte dei Porci, analogamente ai vicini Caprasio, o monte delle Capre, e Musinè o monte degli Asini.
(Fonte: www.sacradisanmichele.com)

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(Da Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Sacra_di_San_Michele)
Le fasi iniziali della nascita della sacra di San Michele sono incerte e avvolte in un’alternanza di storia e racconti leggendari. Lo storico più antico fu un monaco Guglielmo, vissuto proprio in quel cenobio e che, intorno alla fine dell’XI secolo, scrisse il Chronicon Coenobii Sancti Michaelis de Clusa. In questo scritto, la data di fondazione della sacra è indicata nel 966, ma lo stesso monaco, in un altro passo della sua opera, afferma che la costruzione iniziò sotto il pontificato di papa Silvestro II (999 – 1003), in precedenza abate dell’abbazia di San Colombano di Bobbio.

Per quanto concerne la data di fondazione, alcuni studiosi sono orientati a identificare negli anni 999-1002 il periodo in cui nacque questa abbazia, mentre per altri la data di fondazione dovrebbe essere anticipata agli anni 983-987. In sostanza quindi l’origine vera e propria della costruzione risale al tempo in cui visse il santo Giovanni Vincenzo, tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo.

Accanto al sacello più antico, Giovanni Vincenzo ne realizzò un altro che è l’ambiente centrale dell’attuale cripta della Chiesa. Gli studiosi tendono ad attribuire questo ambiente a Giovanni Vincenzo in quanto le nicchie, gli archetti e le colonnine richiamano motivi analoghi propri dell’architettura bizantina, e l’eremita probabilmente soggiornò nella città di Ravenna o in una qualche diocesi del ravennate. Nei decenni successivi fu costruito un piccolo cenobio che ospitava pochi monaci e poteva accogliere qualche pellegrino.

Questa costruzione è dovuta alla magnanimità e alla fede del nobile francese Hugon di Montboissier, governatore di Aurec-sur-Loire, nell’Alvernia.

Interno della Chiesa
Interno della Chiesa
Il ripido e severo Scalone dei Morti, costruito in pietra verde in mezzo alle rocce affioranti, conduce in alto all’ingresso della Chiesa

Nei decenni successivi, la struttura dell’abbazia, affidata ai Benedettini, si sviluppò progressivamente dando asilo ai pellegrini e protezione alle popolazioni della zona. Nell’XI secolo fu infatti costruito l’edificio della foresteria, staccato dal monastero, e in grado di accogliere i numerosi pellegrini che, percorrendo la via Francigena, vi salivano per trovare ristoro fisico e spirituale. Un grande impulso fu dato dall’abate Adverto di Lezat (diocesi di Tolosa) chiamato da Ugo di Montboissier a dirigere il primo cenobio. Probabilmente l’architetto Guglielmo da Volpiano realizzò il progetto della chiesa posta sopra le tre preesistenti. Il periodo interessato da questo sviluppo è compreso tra il 1015e il 1035.

Il Monastero Nuovo

Il Monastero Nuovo, oggi in rovina, venne edificato sul lato nord e aveva tutte le strutture necessarie alla vita di molte decine di monaci: celle, biblioteca, cucine, refettorio, officine. Questa parte del complesso si trova nel posto in cui probabilmente sorgeva il castrum di epoca romana. Di questa costruzione rimangono ora dei ruderi affacciati sulla Val di Susa: era un edificio a cinque piani, la cui imponenza è manifestata dai muraglioni, dagli archi e dai pilastri. Svetta, su tutte le rovine, la torre della bell’Alda, oggetto di una suggestiva leggenda: una fanciulla, la bell’Alda appunto, volendo sfuggire dalla cattura di alcuni soldati di ventura, si ritrovò sulla sommità della torre. Dopo aver pregato, disperata, preferì saltare nel burrone piuttosto che farsi prendere; le vennero in soccorso gli angeli e miracolosamente atterrò illesa. La leggenda vuole che, per dimostrare ai suoi compaesani quanto era successo, tentasse nuovamente il volo dalla torre, ma che per la vanità del gesto ne rimase uccisa.

L’abate Ermengardo, che resse il monastero dal 1099 al 1131, fece realizzare l’opera più ardita di tutta l’imponente costruzione, l’impressionante basamento che, partendo dalla base del picco del monte, raggiunse la vetta e costituì il livello di partenza per la costruzione della nuova capiente chiesa. Questo basamento è alto ben 26 metri ed è sovrastato dalle absidi che portano la cima della costruzione a sfiorare i 1.000 metri di altitudine rispetto ai 960 del monte Pirchiriano. Proprio la punta del monte Pirchiriano costituisce la base di una delle colonne portanti della chiesa ed è tuttora visibile e riconoscibile grazie alla presenza di una targa riportante la dicitura: “culmine vertiginosamente santo” modo in cui amava definire questo posto il poeta rosminiano Clemente Rebora.

La nuova chiesa

La nuova chiesa, che è anche quella attuale, è stata eretta su strutture possenti e sovrasta le più antiche costruzioni che sono state così inglobate. Questa costruzione dovette richiedere molti anni e il trascorrere del tempo è documentato nel passaggio che si trova all’interno delle campate tra il pilastro cilindrico e quello polistilo e nel variare del gusto che passa dal romanico al gotico sia nelle decorazioni che nella forma delle porte e delle finestre.

La Scra di San Michele ammantata di neve

Il lavoro durò a lungo e fu più volte interrotto a causa delle difficoltà che si incontravano nella realizzazione di un’opera tanto imponente; in particolare richiese molto tempo la costruzione del basamento e delle absidi, che furono costruite per prime con la prima campata sostenuta da due pilastri rotondi. Tutto questo ha comportato, nelle navate, il sovrapporsi di tre tipi di architettura: uno stile romanico con caratteristiche normanne, uno stile romanico che si può definire di transizione, e infine uno stile gotico francese.

Tra il 1120 e il 1130 lavorò alla Sacra lo scultore Niccolò. Dal protiro, altissimo a più piani, si accede allo scalone dei Morti, così chiamato perché anticamente era fiancheggiato da tombe. Qui si trova la porta dello Zodiaco, con gli stipiti decorati da rilievi dei segni zodiacali, che all’epoca erano un modo per rappresentare lo scorrere del tempo (quindi una sorta di memento mori). In questi rilievi, simili a quelli dei popoli fantastici nella porta dei Principi di Modena, si riscontrano influenze del linearismo della scuola scultorea di Tolosa.

Gli interventi fatti per adattare lo sviluppo architettonico al particolare ambiente costituito dalla vetta del monte Pirchiriano hanno portato al rovesciamento degli elementi costitutivi fondamentali. In tutte le chiese la facciata è sempre localizzata frontalmente rispetto alle absidi poste dietro l’altare maggiore e contiene il portale d’ingresso; al contrario, la facciata della sacra si trova nel piano posto sotto il pavimento che costituisce la volta dello scalone dei Morti. La facciata è sotto l’altare maggiore, ed è sovrastata dalle absidi con la loggia dei Viretti, visibile dalla parte del monte rivolta verso la pianura padana.

Nel 1315 fu composto il Breviario di San Michele della Chiusa per scandire le preghiere quotidiane e celebrare le festività della Chiesa Cattolica, all’interno del breviario fu posto inoltre il ciclo delle preghiere particolari, per celebrare e onorare il fondatore San Giovanni Vincenzo.

Dopo seicento anni di vita benedettina, nel XVII secolo, la Sacra restò quasi abbandonata per oltre due secoli. Nel 1836Carlo Alberto di Savoia, desideroso di far risorgere il monumento che era stato l’onore della Chiesa piemontese e del suo casato, pensò di collocare, stabilmente, una congregazione religiosa. Offrì l’opera ad Antonio Rosmini, giovane fondatore dell’Istituto della carità, che accettò, trovandola conforme allo spirito della sua congregazione.

Papa Gregorio XVI, con un breve dell’agosto 1836, nominò i rosminiani amministratori della sacra e delle superstiti rendite abbaziali. Contemporaneamente, il re affidò loro in custodia le salme di ventiquattro reali di casa Savoia, traslate dal duomo di Torino, ora tumulate in Chiesa entro pesanti sarcofaghi di pietra. Tra i più noti di essi il duca bambino Francesco Giacinto di Savoia, l’intrigante madre di Vittorio Amedeo II primo Re di Sardegna Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours e il cardinale Maurizio di Savoia che tentò senza riuscirci di conquistare il potere. La scelta di questa antica abbazia evidenzia la prospettiva della spiritualità di Antonio Rosmini che, negli scritti ascetici, richiama costantemente ai suoi religiosi la priorità della vita contemplativa, quale fonte ed alimento che dà senso e sapore ad ogni attività esterna: nella vita attiva il consacrato entra solo dietro chiamata della provvidenza e tutte le opere, in qualsiasi luogo o tempo, sono per lui buone se lo perfezionano nella carità di Dio. I padri rosminiani restano alla sacra anche dopo la legge dell’incameramento dei beni ecclesiastici del 1867 che spogliava la comunità religiosa dei pochi averi necessari per un dignitoso sostentamento e un minimo di manutenzione all’edificio che conserva numerose opere d’arte[5].

Nel XX secolo particolare importanza riveste la visita di papa Giovanni Paolo II il 14 luglio 1991, nel corso della sua visita alla diocesi di Susa per la beatificazione del vescovoEdoardo Giuseppe Rosaz.

Lo scrittore Umberto Eco si è parzialmente ispirato a questa suggestiva abbazia benedettina per ambientare il suo più celebre romanzo Il nome della rosa.[6] Inizialmente era stato proposto anche di girarvi le scene dell’omonimo film di Jean-Jacques Annaud del 1985, scelta poi scartata dai produttori cinematografici a causa degli elevati costi da sostenere[7][8]. Da ricordare che il romanzo di Marcello Simoni Il mercante di libri maledetti inizia da questa abbazia.

Il 21/12/1994 la Regione Piemonte ha ufficialmente riconosciuto la Sacra monumento ufficiale del Piemonte con decreto speciale.

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