Chi vuole pane porti letame.

Pane e letame. Inizio e fine, verrebbe da dire, di un ciclo produttivo incentrato sulla persona, sulla sua biologia peraltro comune alle altre specie animali.

Pane e letame nel caso di questo motto popolare stanno però per paga e lavoro faticoso.

Della paga si potrebbe dire che può essere costituita da merci o servizi ricevuti in cambio della prestazione effettuata, a mo’ di baratto, come un tempo avveniva con la pecunia, l’insieme dei capi di bestiame usati per ottenere merce di scambio, o che può corrispondere a un salario, termine che ha ormai perso ogni traccia dell’iniziale riferimento al sale e alla sua preziosità. O, ancora, che la paga può essere pagata in soldi, in moneta – oggi meglio se frusciante – o in denaro, termine che nasconde un rinvio a un numerale, dicei, che ci si può spiegare solo ponendosi nella logica del sistema monetale romano.

Si potrebbero dire molte altre cose, in verità. Tutte però accomunate, nell’esperienza di molti ma non di tutti, dalla necessità di essere precedute da una più o meno cospicua dose di fatica.

Di fatica parla per l’appunto il lavoro, costituendo fatica il nucleo significativo della parola stessa per lavoro, labor in latino, che ha poi ceduto il passo, nel corso della storia, a quello di ‘attività’ in senso generale, di qualunque tipo. Tanta è infatti la vaghezza semantica di lavoro, che per capire di che attività si tratta è necessario spendere altre parole a definirne la natura, gli scopi, le modalità.


Non così fu però per labor, l’antecedente, lo si è detto, del moderno italiano lavoro, parola da cui trasudano fatica e sforzo. Quella fatica e quello sforzo, sotto il sole, la pioggia e ogni altro tipo di intemperie, che solo può comprendere chi sia pratico della vita trascorsa in mezzo ai campi. Questo appare infatti l’ambito originario che ci restituisce l’etimologia per questa parola, che il latino di quelli che divennero poi classici fece proprio a spese di opus e di opera, termini che condividono tra di loro l’elemento radicale oltre che il rinvio all’attività in generale. Consumata l’occupazione, da parte di lavoro, dello spazio del riferimento generico e generalizzato dell’operosità (per coglierne il tenore basti confrontare il mio lavoro consiste in con la mia opera consiste in), il destino di opus non poté sfuggire a quello proprio di tanti altri termini di altrettanta esiguità fonetica, eliminati o relegati negli strati alti, e perciò meno usati, della lingua (non tutti, si intende, perché diversamente non ci spiegheremmo l’italiano sole e lo spagnolo sol e ci dovremmo attendere, per parlare del sole, in tutto il mondo romanzo, l’equivalente di una forma ampliata in maniera analoga al francese soleil).

Destino intermedio, invece, quello di opera, la cui semantica si è prestata a un’ulteriore sterzata quando il termine fu preso a base per i derivati operazione e operare, che di lavorare condividono la vaghezza e la necessità di determinazione (tangibile nell’ambiguità dell’esclamazione: ho appena terminato l’operazione!).

 

Il termine però più interessante del campo semantico del lavoro, intendendo con ciò l’insieme dei termini accomunati almeno per una parte del loro significato dal rinvio a questa attività, è di certo costituito da travaglio, elemento di riferimento nelle varietà meridionali d’Italia – uno su tutti il siciliano travagghiari, scritto anche travagliari – che nella lingua italiana ha subito un processo di settorializzazione che ne ha fatto uno dei termini per eccellenza della nascita.

Alla base di questa verbo la medesima forma che è divenuta lo spagnolo trabajar e il portoghese trabalhar: il verbo ricostruito come *tripaliare.

Un verbo ottenuto per derivazione da un sostantivo, tripalium, indicante un bastone impiegato come strumento di tortura, per esempio nel corso di interrogatori di testimoni reticenti. Un collegamento, questo, che poco spazio lascia all’immaginazione circa l’accostamento del lavoro a una fatica tanto grande da rievocare una tortura.

Sembrerebbe, alla fine di questo rapido e… faticoso excursus, che il pane, ovvero il lavoro, comporti fatica e sofferenza sempre, anche quando non consista nel portare il letame… letame che però nella storia lingua riesce ad avere la migliore delle rivincite sperabili.

A dispetto delle incrostazioni della storia linguistica, il recupero etimologico restituisce infatti al concime la valenza più che positiva che ne faceva ciò che rendeva le piante ‘liete’, ovvero rigogliose.

La fatica del pane trova così la propria compensazione nella fruttuosità della terra e nella conseguente lietezza del contadino operoso.

 

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A lavoro e alla sua famiglia è dedicata la puntata di aprile del videoblog Sentieri di parole, sul portale dell’editore Zanichelli.

 

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